28 NOVEMBRE 1943
NAPOLI.ULTIMA LETTERA DI GAIME PONTOR

L’ultima lettera di Giaime Pintor, scritta al fratello luigi prima della missione in cui resterà ucciso.

Fino a che punto, nell’autunno 1943, Roma fosse
lontana da Napoli, oggi non si riesce a immaginare: poco
più di duecento chilometri che ne facevano «una città
isolata in una campagna quasi nuda. Non c’era quella
continuità fra città e campagna che c’è invece nel nord».
C’erano invece un fronte di guerra e la difesa allestita
dall’esercito tedesco: la cosiddetta linea Gustav che tagliava l’Italia in due. Il giovane germanista Giaime Pintor,
che dal principio di novembre si era deciso a lavorare
direttamente per il servizio segreto inglese, era consapevole
del rischio:

Per mio fratello.
Napoli, 28 novembre 1943
Carissimo,
parto in questi giorni per un’impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d’animo in cui affronto questa missione.
Era un tentativo in extremis, perché l’ultimo varco
del fronte stava per chiudersi. Pintor si munì di una tessera falsa della Milizia fascista a nome Ugo Giuseppe
Stille. La partenza della missione Arnold era fissata per
la mattina del 29, prima dell’alba; la lettera al fratello
Luigi fu scritta la sera precedente: «È la conclusione naturale di quest’ultima avventura, ma soprattutto il punto
d’arrivo di un’esperienza che coinvolge tutta la nostra
giovinezza».
Il ventiquattrenne Pintor parla al plurale: perché è
il capo-spedizione, ma non solo per questo. Furono in
cinque a partire. Castelnuovo al Volturno, ai piedi del
monte Marrone, era l’estremo limite delle posizioni alleate,
dopodiché bisognava superare nottetempo la catena
delle Mainarde. In quella zona le pattuglie tedesche
avevano abbandonato i sentieri: dopo averli seminati di
mine, ma gli Alleati non lo sapevano. I cinque si divisero
in due gruppi; Pintor-Stille rimase alla retroguardia
col partigiano Ciotti. La strada era sbarrata da filo spinato;
presero la via dei campi, ma dal terreno si vedevano
spuntare i fili delle mine, mentre da una casa poco
distante partirono colpi di fucile: l’operazione era fallita,
e il gruppo decise di tornare indietro. Ciotti racconta:
Qui avvenne la disgrazia. Andavamo curvi molto vicini
l’uno all’altro. Stille stava dicendo forte a me e agli
altri di fare attenzione alle mine, quando uno di noi due
smosse dal terreno un filo teso a trappola: immediatamente
una forte esplosione, proprio ai piedi di Stille il quale fu
rovesciato indietro di colpo.
Le mine erano così numerose che non si poté recuperare
il corpo, rimasto a lungo insepolto. La famiglia
Pintor, che era a Roma, avrebbe saputo della morte di
Giaime solo il 18 febbraio 1944.
In quella Roma dove cercò invano di ritornare, Giaime
Pintor si era trovato già nei giorni successivi all’armistizio
dell’8 settembre e alla disintegrazione dello stato
italiano: in quelle giornate convulse se n’era andato
in giro armato di mitra e di una bandiera tricolore, incitando
la gente a combattere contro i tedeschi che però
avevano ormai preso il controllo del territorio. Prima di
abbandonare la città aveva scritto un biglietto all’amico
Mario Alicata, comunista:
Carissimo, dopo aver fatto per qualche settimana il diplomatico
e per due giorni il pistolero, la cosa migliore che
io possa fare è di andare nel Sud, per cercare di mettermi
in contatto con gli Inglesi e informarli della situazione che
si sta sviluppando a Roma. Ti prego di voler comunicare
questa mia decisione agli altri.
La «nostra giovinezza», gli «altri». Da Roma, Pintor
— che aveva il grado di tenente dell’esercito italiano –
raggiunse Brindisi, dove erano fuggiti il capo del governo
Pietro Badoglio e il re Vittorio Emanuele III: all’Ufficio
informazioni del Comando Supremo trascorse «dieci
pessimi giorni» che lo convinsero della totale inerzia
dei militari, dell’impossibilità di riorganizzare un esercito
regolare e della mentalità fascista radicata tuttora
negli alti comandi. Per sua fortuna arrivarono a Brindisi
lo storico Raimondo Craveri e il futuro ambasciatore
Alberto Tarchiani, emissari di Benedetto Croce; erano
venuti a parlare con Badoglio del progetto di organiz-
Napoli, 28 novembre 1943
Al piano superiore, la Resistenza
l’ultima lettera di giaime pintor, scritta al fratello luigi prima della
missione in cui resterà ucciso. un partigiano elegante nella guerra
antropologica: esistenze ad alzo zero. «fischia il vento al calascione
»: longanesi e il senatore. mercutio vs amleto: la gioventú disponibile
zare un corpo di volontari italiani. A Napoli, infatti, si
era appena costituito un Fronte Nazionale della Liberazione:
Pintor si convinse che aderirvi era l’unica via
d’uscita, e con loro abbandonò Brindisi in jeep. Erano
i primi dell’ottobre 1943.
Proprio come la distanza Napoli-Roma, anche le settimane
tra la caduta del fascismo e l’inizio della guerra
civile sono una geografia bianca; Pintor lo spiega nel suo
saggio Il colpo di Stato del 25 luglio:
Le giornate che seguirono l’8 settembre furono le più
gravi che l’Italia abbia attraversato da quando esiste come
paese unito. […]
In una guerra che aveva visto la tragedia della Polonia,
il crollo della Francia e della Jugoslavia, nessuno spettacolo
fu più tragico del disfacimento della compagine italiana.
[…] la lezione diretta che noi possiamo trarne, oltre a
un generico sdegno, è la certezza del fallimento della classe
dirigente italiana: questo fatto, mascherato per anni dietro
ogni sorta di equilibrismi, oggi scoperto e evidente come
una piaga incurabile.
[Gli italiani] Erano un popolo vinto; ma portavano
dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese
inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano
vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati
e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali
abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere
una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano
un popolo di morti. La caduta dell’impalcatura statale
scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo
non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva
intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione.
Pintor scrisse queste pagine a Napoli, nell’ottobre
1943: con la lettera al fratello, sono l’altro suo testamento,
dove non si parla di «morte della patria» bensì
della fine di un regime, di una classe dirigente: di un’antropologia
italiana. Eccone la conclusione:
Ormai l’Italia uscirà da questa crisi attraverso una prova
durissima: la distruzione delle sue città, la distruzione
dei suoi giovani, le sofferenze, la fame. Questa prova può
essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il
coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione
totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina
da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto
da una vera rivoluzione.
L’avvenire, anche immediato, era imperscrutabile: e
allora, osservare la vicenda di Pintor con la massima attenzione
— ad alzo zero, come trovandosi accanto a lui
sul terreno — può essere un modo per raccontare il suo
ultimo percorso senza tradirlo, rispettando la sua cifra
umana che agisce nell’incertezza. «Aveva un autocontrollo
assoluto, però con allegria», ricorda Aldo Garosci,
dirigente del Partito d’azione. «Aveva una maturità
quasi sconcertante, anche nei tratti fisici, e una mescolanza
di aspetti estremamente infantili e gioiosi, che era
poi di tutti noi».
Pintor giunge dunque a Napoli ai primi di ottobre
del ’43; sono appena finite le Quattro Giornate, la città
ha saputo liberarsi dai tedeschi senza nessun aiuto dall’esterno.
Il 10 ottobre viene affisso in città il Manifesto
per la chiamata dei volontarî, steso da Croce. A organizzarli
è Pintor, con l’aiuto di Garosci, Craveri, Tarchiani
e Dino Gentili. Malgrado l’ostruzionismo e i divieti
dei comandi alleati, che vedono di malocchio questa iniziativa
italiana autonoma — una iniziativa, di fatto, antimonarchica
e antibadogliana –, al quartier generale di
piazza Carità si presentano in molti.
I volontari affluivano: sbandati che venivano dal nord,
spesso uomini magnifici; studenti, giovanotti napoletani,
marinai che avevano preso parte alle giornate di Napoli.
Ma mancava tutto. Erano state promesse, per cominciare,
le razioni per duecento uomini e ne venivano date forse
una ventina.
Per superare lo stallo, il gruppo di Pintor crea il Centro
italiano di propaganda, dove l’aggettivo italiano è orgoglioso
ed essenziale: si tratta di un ufficio stampa per
promuovere il reclutamento. Lo dirige un grande letterato
antifascista, Francesco Flora; la sede è in viale Calascione
37, a Monte di Dio, al terzo e ultimo piano di
un palazzo che domina il centro storico della città da un
versante, la collina e la baia di Posillipo dall’altra parte.
Così come i napoletani sono riusciti a liberarsi da sé, il
gruppo di Pintor vorrebbe che a liberare Roma fossero
dei partigiani italiani indipendenti. Ma l’accordo con gli
Alleati fallisce senza rimedio. Per poter combattere, Pintor
e i suoi amici si vedono costretti a collaborare con
l’intelligence inglese; di qui, racconta Garosci, «gli scherzi
di Giaime sui nostri vestiti da montagna, che ci autorizzerebbero
a fondare una rivista di mode, “il partigiano
elegante”». Di qui, anche, la rischiosa missione
che partì da Napoli all’alba del 29 novembre:
ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa
stagione mi diverte pochissimo: non ho mai apprezzato
come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere
un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo
ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica
possibilità aperta e l’accolgo.
Quasi certamente, il germanista Pintor che scrive
queste righe a suo fratello non aveva letto Bertolt Brecht;
sapeva però, come Brecht, che per essere all’altezza del
proprio tempo bisogna partire dalle cattive cose nuove
e non dalle buone vecchie cose. Già quando lavorava come
consulente per la casa editrice Einaudi, le sue proposte
riguardavano testi che erano altrettanti referti della
crisi europea in atto (Max Weber, Karl Löwith). Ma
Pintor suggeriva inoltre libri che erano forse più utili an-
Al piano superiore, la Resistenza 691
cora per capire la tragedia: libri opachi, o nemici, o infetti:
le opere di Ernst Jünger, La dittatura di Carl Schmitt,
I proscritti di Ernst von Salomon. «Io ho avuto fin da
bambino il terrore dell’inutilità», aveva scritto Giaime
a sedici anni. Sotto un regime fascista che militarizzava
ogni giorno di più la vita quotidiana del popolo, Pintor
visse la propria carriera militare come inerzia coatta, come
servitù, come squallore di giornate uguali. Comandato
a Vichy presso la Commissione italiana di armistizio
con la Francia, soffrì la privazione della libertà e soffrì
— lo scrive ancora negli appunti di diario — «questa guerra
paurosamente astratta». Il lavoro diplomatico lo teneva
al riparo, lontano dal fronte, ma lui voleva combattere,
sia pure nella guerra sbagliata di Mussolini: costretto
a una guerra astratta, ne avrebbe voluta una concreta
e reale, pur sapendo di non potervi consentire.
Sarà la guerra civile a rispondere, finalmente, al suo bisogno
di realtà, di una «presa di possesso del concreto».
Appena dopo l’8 settembre 1943, a fronte dell’apparato
statale e dell’esercito italiano che si dissolvono, c’è
una Resistenza che si organizza altrettanto dal nulla e
senza nulla a disposizione. Alcuni pochi, collocati in ogni
strato sociale e in ogni zona del paese, sapranno impegnarsi
in un combattimento rivoluzionario: daranno origine
a uno «stato d’eccezione» diverso da quello caro al
filosofo Carl Schmitt che tanto affascina Pintor, perché
non consegnerà il potere a un solo individuo ma lo ripristinerà
per restituirlo a una nazione e a una cittadinanza
rigenerate. La Resistenza, per i pochi che la combatterono
lì e allora, è stata il nucleo di una diversa autobiografia
della nazione. A dispetto delle ricostruzioni tendenziose,
la maggioranza di quella minoranza attiva che la
animò non aveva disegni precisi per il dopo: si limitava a
praticare e custodire alcune passioni elementari, violente.
Claudio Pavone ha parlato di tre distinte guerre che
s’intrecciarono dentro la guerra civile italiana del periodo
settembre 1943 — aprile 1945: la guerra patriottica
contro i nazisti, la guerra civile contro i fascisti, la
guerra di classe per instaurare il comunismo a battaglia
finita. Forse è il caso di estrarre, dal subbuglio di quei
venti mesi, una quarta guerra: una guerra antropologica,
una lotta etico-politica che si combatté per fissare — nell’azione
di guerriglia e nella postura morale, più che in
scritti e discorsi — un carattere nuovo per l’identità italiana,
un capitale morale per l’avvenire incerto. Fin dal
1941, in un saggio contro il «nuovo romanticismo», Pintor
si proponeva di «sfuggire alla condizione di servitù
che si prepara per le minoranze inutili». La missione che
il 29 novembre del ’43 lo spinse a lasciare Napoli era
un’operazione forse ininfluente sul corso del conflitto,
ma necessaria per diventare parte di una minoranza utile
all’Italia del postfascismo.
Otto mesi dopo la sua morte, nell’agosto 1944, un
personaggio insospettabile annotava — nella stessa Napoli
dalla quale lui era partito senza ritorno — alcune frasi
che Pintor avrebbe potuto parzialmente sottoscrivere:
Scorro gli articoli di un settimanale letterario usciti oggi:
Savinio, Moravia e gli inevitabili giovani intellettuali di
ieri. Ma questi mesi hanno tolto ogni credibilità ad ogni critica,
ad ogni opinione letteraria. Mi hanno tolto ogni sopportazione
per ogni bel giudizio estetico. Di fronte ai resti
di Formia o Arezzo, che il film del tale regista sia ritmico
o aritmico mi sembra indifferente.
Le parole del regista Stefano Vanzina, in arte Steno,
suonano degne di rispetto, disilluse e gravi quali sono:
adulte. Ventiseienne, Steno era fuggito da Roma undici
mesi prima, il 16 settembre 1943, in compagnia del
suo collega Riccardo Freda, del pugile Enzo Fiermonte
e di Leo Longanesi, ingegno multiforme di giornalista,
scrittore, pittore, editore. Dodici giorni dopo, a Torella
dei Lombardi in Irpinia, i quattro avevano incontrato
un’altra coppia di fuggiaschi da Roma: lo scrittore e
regista Mario Soldati e il produttore cinematografico Dino
De Laurentiis, originario appunto di Torella. Tranne
l’unico ormai giunto a destinazione, il quintetto rimanente
fece gruppo; racconta Soldati nel suo Fuga in
Italia (1947): «Tenteremo insieme la sorte. Bisogna andare
a Napoli, far qualche cosa, almeno guadagnarci da
vivere finché non sia liberata Roma».
I primi giorni napoletani furono da fame: finché, dinanzi
al comandante del PWB — Psychological Warfare
Branch, sezione propaganda della V Armata americana –
che gli domandava cosa sapessero fare, Longanesi non
eseguì di getto un disegno a penna: un teschio che indossava
l’elmetto tedesco, decorato della croce di ferro con
fronde di quercia e circondato di stoffe militari a brandelli.
Sotto il disegno una didascalia: Germania 1945.
Longanesi e Freda furono destinati al Centro italiano
di propaganda. A loro e a Steno, Fiermonte, Soldati
e Gabriele Baldini — giovane anglista, anch’egli profugo
a Napoli — fu assegnato un appartamento di proprietà
del libraio-editore Gaspare Casella, al secondo piano di
viale Calascione 37. Al terzo, sopra le loro teste, abitavano
Giaime Pintor che si faceva chiamare Ugo Stille,
Dino Gentili che usava vari pseudonimi, Aldo Garosci,
Alberto Cianca, il conte Carlo Sforza, Alberto Tarchiani:
con Francesco Flora, l’intero stato maggiore dell’antifascismo
insediato a Napoli. Erano i loro datori di lavoro:
e Pintor aveva l’incarico di vigilare sui «letterati».
Fischia il vento al Calascione
tra le case diroccate:
siamo cinque o sei persone
mal nutrite, mal pagate.
Fischia il vento. È già Domenica:
l’avanzata come va?
Sono fermi. È ancor Domenica:
Roma sempre sta di là.
692 Napoli, 28 novembre 1943
La filastrocca Napoli 1944 fu scritta in collaborazione
da Soldati, da Baldini e dagli altri. Rumorosi, litigiosi,
istrionici, gli inquilini della «casa dei mimi» (così
la chiamava Pintor) vennero impiegati nella redazione di
un giornale di propaganda e in una trasmissione diffusa
da Radio Napoli Nazioni Unite: Stella bianca, la prima
trasmissione di satira dell’Italia libera. Tutti loro ne erano,
di volta in volta, autori e interpreti. Lo speaker era
Arnoldo Foà, ma era Steno a imitare la voce inconfondibile
del Duce: «Il treno del fascismo si è fermato a…»
Era fermo quel treno, e al secondo piano dei letterati
esuberanti soprattutto Longanesi non sapeva più dove
andare; lavorare per il pwb era solo un ripiego. Nelle loro
prime difficili giornate, i profughi dall’Urbe avevano
provato a farsi ricevere dal senatore Croce, riparato a
Sorrento: sembrava la via più diretta per farsi riabilitare
politicamente, ma l’unico non ammesso fu proprio Longanesi,
cui Croce non poteva perdonare lo slogan il duce
ha sempre ragione. Soldati, con agile opportunismo,
si era dissociato da Longanesi e aveva ottenuto l’udienza:
poteva oltretutto contare sull’amicizia delle figlie del
filosofo, e sarà proprio Elena Croce, la primogenita, a
stilare la diagnosi; per Longanesi quella fuga a Napoli
segnò un fallimento decisivo. Aveva una educazione poco
sportiva, sempre abituato a primeggiare divertendo, non
sapeva incassare. […] la sua fiduciosità aveva già ricevuto
un colpo (da cui non si sarebbe più ripresa) da quella che
fra tutte queste esperienze era stata forse la più penosa,
ossia la freddezza dimostratagli dagli antifascisti. Soprattutto
gli era pesata quella degli uomini di pensiero, per cui
egli aveva avuto sempre un misto di rispetto e di antipatia:
Croce, Omodeo, uomini severi, che non avevano mai
sorriso, nemmeno ai bei tempi, delle sue battute.
Nel suo diario Parliamo dell’elefante, alla data 12 dicembre
1943, Longanesi registra l’arrivo di un tale M.
al piano di sopra. «Egli si aggiunge al clan dei farisei che
non ci lasciano in pace». Due settimane più tardi, 27 dicembre:
M. viene a farci visita e ci racconta che «al senatore
non piacciono» le nostre trasmissioni alla radio. Egli pronuncia
la parola senatore con estrema soddisfazione.
Il senatore! Questa parola l’udirete spesso qui a Napoli.
Il re, il senatore, gli alleati, le Camel: ecco le parole più
in voga oggi. […]
Il senatore è un’ombra, un mito, qualcosa che sta fra il
santo padre, la signora direttrice, l’oracolo di Delfo e il commissario
di polizia. Napoli è divisa in due partiti: da un lato
gli amici del senatore, dall’altro i nemici del senatore.
Muovere qualche critica al senatore equivale a dir male della
Libertà e chi vuol prendersi la libertà di muovere una
critica, anche la più innocente, al direttore della Critica?
Il nuovo arrivato M. era Umberto Morra, esponente
del Partito d’azione. Sarà lui, nel recensire il diario di
Longanesi, a notare che in due punti vi si parla di Giaime
Pintor in modo diffamatorio. Il primo è alla data 6
novembre 1943; riguarda il corpo dei volontari italiani:
G. mi spiega che i «volontari» dovrebbero essere inquadrati
e comandati secondo il criterio dei rossi durante
la guerra di Spagna; piccole pattuglie agguerrite, senza gradi,
comandate dagli elementi più valorosi. «I gradi devono
essere conquistati sul campo».
«Ma hai visto le facce di questi volontari?» gli dico.
«Che cosa c’entrano le facce?!»
Se dobbiamo credere a un suo amico che era anche
qualcosa come un suo allievo, Indro Montanelli, Longanesi
era diventato antifascista — per sua stessa confidenza
— il giorno in cui, in tram, aveva osservato il sedere
di un console della Milizia che gli stava davanti. Ora la
Resistenza veniva sottoposta alla stessa lettura fisiognomica,
e bollata prima ancora di poter incominciare.
L’altro punto del suo diario dove Longanesi parla di
G., che ovviamente è Giaime, è del 20 novembre, nove
giorni prima della missione Arnold. La citazione sarà
lunga, ma è una pagina difficile da scorciare.
Il Comitato antifascista che abita nel piano sopra il
nostro ha una buona biblioteca, requisita al padrone di casa.
Chiediamo di prendere qualche volume, per leggerlo.
G. e gli altri mostrano una certa ostilità a questa richiesta,
non per timore che non si restituiscano i libri, il che
avverrà certamente, ma perché temono che noi si legga
quei libri ch’essi non leggeranno mai.
L’antifascismo è molto meschino, fatto di queste piccole
ostilità, di questi ripicchi. Il clima che si respira qui
a Napoli è quello dei collegi e delle sacrestie. La maggior
preoccupazione degli antifascisti è quella di non allargare
la propria cerchia, per timore che altri possano dire o fare
qualcosa a cui essi non hanno pensato; e custodiscono
i loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo
delle vecchie zitelle contro le giovani spose.
Quelli giunti dall’America o dall’Inghilterra, dopo anni
di esilio, per lo più volontario, sono ritornati con la stessa
mentalità con cui partirono, gli stessi principî già invecchiati,
gli stessi ordini in saccoccia, e persino lo stesso
cappello. Le loro voci, i loro gesti, quel particolar sussiego
di chi ha tanto errato per la libertà testimoniano, anche
all’uomo meno scaltro, la loro sfrenata ambizione. Pettegoli
e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio
rivoluzionario, ed abbiano viaggiato il mondo e vissuto
fuori d’Italia per circa vent’anni, conservano modi e preconcetti
provinciali. Il fascismo, per costoro, è un nemico
personale, non un avversario; un nemico da cui sono
stati privati per venti anni di potere, di cariche, di privilegi,
vent’anni che nessuno potrà ora restituire loro. […]
Se togliete loro la qualifica di «antifascisti» rimarrà
ben poco, perché essi vivono in virtù del nemico. L’Italia
è un qualcosa di astratto che ben poco li interessa, tutto
al più un campo di battaglia, che dico, un parlamento, una
piazza, una sala da comizi, uno sfondo sul quale rappre-
Al piano superiore, la Resistenza 693
sentare la grande commedia democratica che stanno preparando
da anni. Non li vedrete mai interessarsi a un preciso
problema, economico o politico, non li vedrete perder
tempo a segnarsi un appunto su una delle tante penose e
insolute questioni del popolo napoletano; passano fra le
rovine di questa città, nelle vie tristi e sudice, fra putridi
mucchi d’immondizie, bimbi scalzi e denutriti, donne e
uomini fradici di miseria e di malattie, passano senza volgersi,
con le loro carte sotto il braccio, in fretta, senza perdere
un attimo. Nulla li interessa; quel ch’essi vi diranno,
se li interrogate, è che il fascismo è colpevole di tutto.
Una pagina da antologia negativa: la sintesi — stilistica,
ritmica, argomentativa — di tutto quanto da allora
in poi verrà detto contro le minoranze politicamente
attive, disposte a rischiare e a combattere, impegnate
contro la furbizia dell’eterno italiano. Una piccola summa
del qualunquismo o, per dirla in termini più aggiornati,
della «zona grigia», del revisionismo storico: la matrice
di ciò che sulla Resistenza scriveranno i Montanelli,
i Malaparte, gli Ansaldo, giù giù fino ai loro eredi di oggi:
quel teppismo benpensante che è lo stigma del giornalismo
radicale di destra. Nel caso poi di Longanesi è teppismo
adolescenziale: il contrasto di caratteri con l’adultità
di Pintor è netto. Senza dire che, tra le accuse mosse
a G., la più infondata e gretta riguarda l’ignoranza.
Scrittore precocissimo, Pintor aveva collaborato con
articoli satirici di costume a «Oggi», un settimanale in
rotocalco (direttori Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio)
realizzato ispirandosi all’esempio di Longanesi, che
come giornalista era dotato di enorme talento innovativo.
Su «Oggi» Pintor si firmava «Mercutio», ma aveva
chiuso la sua rubrica non appena scoppiò la guerra, ai
primi di settembre ’39, rivolgendo a se stesso il rimprovero
che Shakespeare fa pronunciare a Romeo: «Peace,
peace, Mercutio, peace! Thou talk’st of nothing». In
quel frangente un Mercutio non poteva continuare a parlare
di nulla; malgrado avesse soltanto vent’anni, i tempi
non glielo consentivano più. Scriverà Pintor nell’ultima
lettera:
Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto
dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere
a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere
minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e
operai che sono all’avanguardia d’Europa. L’Italia è nata
dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico
episodio della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre
minoranze per restituire all’Europa un popolo di africani
e di levantini. Oggi in nessuna nazione civile il distacco
fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così
grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare
lo stato d’emergenza.
Nell’autunno 1942 Longanesi aveva coniato un nuovo
slogan: siamo in guerra, uno scossone al popolo italiano
già rassegnato alla sconfitta. Pintor volle aderire alla
semplicità di questo slogan, benché diffuso (è lui a scriverlo)
dalla «propaganda ufficiale»; oggi sappiamo che
quella propaganda di regime aveva il nome e cognome di
Leo Longanesi, e sappiamo che l’inventore di quella frase
non era in guerra, e avrebbe fatto l’impossibile per non
doverne subire le conseguenze. Quello slogan, furono
probabilmente i soli antifascisti a prenderlo sul serio:
fischia il vento urla la bufera
scarpe rotte eppur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir.
È impossibile dire con certezza, oggi, se il Pintor che
partì per la sua prima e ultima missione partigiana fosse
un comunista militante oppure no. Il Pci rivendicò
ben presto la sua eredità, ma è un fatto trascurabile in
questa ricostruzione «ad alzo zero». Qui importa che il
suo vento fosse diverso da quello che fischiava al secondo
piano del Calascione; e qui non servirebbe a niente
stabilire se queste frasi della sua ultima lettera fossero
ispirate o meno dalla fede nel comunismo:
una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde
completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A
un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di
trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune,
ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione
di combattimento.
Qui conta solo l’aggettivo «disponibile», perché disponibili
erano, in quegli stessi mesi, Beppe Fenoglio e
Leone Ginzburg, Primo Levi e Antonio Giuriolo; la loro
disponibilità è la readiness di Amleto prima del duello
finale con Laerte — «The readiness is all» — e non certo
il «parlare di nulla» di Mercutio. «Mi ha sempre fatto
ridere la gente che considera la morte come una probabilità,
mentre la morte è evidentemente la sola probabilità,
l’unica»: Giaime Pintor lo aveva scritto nel suo diario
alla fine del 1940, quando aveva ventun anni.
È stato evocato più volte questo diario di Pintor che
in realtà non era un diario, tantomeno un giornale intimo:
piuttosto un promemoria, un’agenda del proprio
passato, un segnavia con lo schizzo del cammino percorso
per arrivare fin là dove si trovava. Era un oggetto
pratico, senza tenerezze e senza indugi: il cosiddetto
«diario» di Pintor è un brogliaccio dove molte parole e
spezzoni di frase sono lasciati in bianco; quando non gli
veniva al volo l’espressione, Giaime saltava oltre, proseguiva
senza fermarsi. Nella corrente della sua scrittura
veloce le cose che vengono a mancare più spesso sono
gli aggettivi, le apposizioni, gli avverbi: le parole che
indicano una sfumatura o aggiungono il dettaglio “bello”.
Pintor era un uomo sostantivale, tirava alla concretezza
delle cose: non che prediligesse solo i verbi, l’a-
694 Napoli, 28 novembre 1943
Al piano superiore, la Resistenza 695
zione in sé e per sé (non era un fascista); la sua era attenzione
responsabile. Per questo poteva permettersi di
parlare al plurale: l’ultima lettera per suo fratello è un
risultato di questo stile.
Io sono in sostanza un impaziente ma non un impaziente
che si butta a precipizio non curandosi di ciò che
troverà innanzi a sé bensì uno che, studiato il terreno, vi
si getta risolutamente. Può cadere ma più probabilmente
arriverà prima di quello che à attraversato il terreno con
calma e circospezione.
Un Giaime sedicenne lo aveva scritto da Roma, il 17
gennaio 1936, a suo zio Pietro Pintor, generale d’armata.
Otto anni dopo o quasi — quel 1º dicembre 1943 in
cui saltò sulla mina del monte Marrone — c’erano, in Italia,
troppi terreni infidi; Giaime Pintor aveva calcolato
il possibile, si era mosso più veloce che poteva, aveva
scritto il verbo avere senza la acca pur di andare più svelto.
È caduto ma è arrivato lo stesso. Era giovane, aveva
gambe buone: è corso avanti ed è arrivato prima di
noi. «Roma sempre sta di là».
domenico scarpa
L’ultima lettera è stata pubblicata integralmente per la prima
volta nel 1946: da Einaudi, nell’opuscolo commemorativo
Giaime Pintor, 1919–1943. Le testimonianze più belle su Pintor
— che sono anche i documenti più completi sulla sua ultima
missione — si devono a Garosci: Un mese e mezzo con Giaime
Pintor, in «Mercurio», I (dicembre 1944), n. 4, pp. 98-
106; La resistenza romana, in l. arbizzani e a. caltabiano (a
cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. II, Testimonianze,
Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 236–44; di qui (pp. 240–41)
le parole iniziali su Roma lontana.
L’opera fondamentale sulla vita e gli scritti di Pintor è m. c.
calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor,
Utet, Torino 2007, fonte di gran parte delle notizie contenute
in questo saggio, tranne quelle relative ai contatti napoletani
con Longanesi & C., qui ricostruiti per la prima volta; citazioni
testuali: p. 19 il terrore dell’inutilità, p. 36 la lettera sull’impaziente
circospetto, p. 419 il biglietto ad Alicata, p. 421
i pessimi giorni di Brindisi. Importante anche g. falaschi (a
cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, manifestolibri, Roma
2005, dove si segnalano h. dorowin, Un illuminista sulla
«via orfica e tumultuosa». Giaime Pintor e la letteratura tedesca,
e la sezione di testimonianze, curata da M. C. Calabri: qui si
sono rivelate utili quelle di Filomena d’Amico, di Garosci, di
Gastone Manacorda e di Luigi Pintor.
Per il Manifesto dei volontarî e per la situazione politica sull’asse
Brindisi-Napoli rimando a b. croce, Taccuini di guerra,
1943–1945, a cura di C. Cassani, Adelphi, Milano 2004. Rapporti
tra Pintor e i servizi segreti inglesi in m. canali, Il mito
del «compagno Giaime Pintor» tra Pci e servizi segreti inglesi, in
«Nuova Storia Contemporanea», XI (luglio-agosto 2007), n. 4,
pp. 31–42, dove però alcune informazioni, presentate come
novità assolute, erano note da tempo.
Gli scritti di Pintor escono postumi nel 1950 da Einaudi, col
titolo Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (1939–1943)
a cura di V. Gerratana; si cita Il nuovo romanticismo («Primato
», 15 agosto 1941), p. 162; ivi, inoltre, una scelta delle Cronache
semiserie a firma Mercutio. Il saggio Il colpo di Stato del
25 luglio era già uscito a New York nel 1944, nel quarto dei
«Quaderni italiani»; oltre che nel Sangue d’Europa è raccolto
nell’opuscolo, a cura di F. Antonicelli, Il colpo di Stato del 25
luglio e alcune pagine e documenti inediti, Einaudi, Torino 1974,
dove si legge anche il rapporto del partigiano Ciotti. Utile
quanto discutibile sul piano filologico è, di Pintor, il Doppio
diario, 1936–1943, a cura di M. Serri, Einaudi, Torino 1978,
dove alle pp. 112–13 troviamo la guerra astratta, il possesso del
concreto e il «siamo in guerra».
Di Steno si cita Sotto le stelle del ’44, a cura di T. Kezich, Sellerio,
Palermo 1993 (annotazione del 6 agosto 1944, p. 27). I resoconti
della fuga Roma-Napoli e del soggiorno napoletano sono,
rispettivamente: m. soldati, Fuga in Italia (1947), a cura
di S. S. Nigro, Sellerio, Palermo 2004, da cui si cita l’annotazione
del 29 settembre 1943, p. 88; in appendice a questo volume,
Il Canzoniere del profugo, che figurava solo nella prima
edizione, corredato dalla Noterella quasi filologica di Gabriele
Baldini (già in «La fiera letteraria», 11 aprile 1948) che commenta
Napoli 1944; r. freda, Divoratori di celluloide. 50 anni
di memorie cinematografiche e non, a cura di G. Fofi e P. Pistagnesi,
Emme Edizioni, Milano 1981. l. longanesi, Parliamo
dell’elefante (frammenti di un diario), Longanesi, Milano
1947. Altre fonti biografiche su Longanesi: i. montanelli e
m. staglieno, Leo Longanesi, Rizzoli, Milano 1984, pp. 262-
264 (sul disegno Germania 1945 e sulla permanenza a Napoli);
i. montanelli, Addio a Longanesi, in «Corriere della Sera
», 29 settembre 1957 (il sedere del console); e. croce, Leo
Longanesi, un maestro della nostra editoria, in «Elsinore», I (febbraio
1964), n. 3, pp. 5–27: citazione dalle pp. 22–23. La recensione
rivelatrice di Umberto Morra, dedicata a Fuga in Italia
e a Parliamo dell’elefante, s’intitola L’Italia in rovina: è in
«Il mondo europeo», n. 47 (15 luglio 1947), p. 9.
Di Claudio Pavone si rimanda all’ormai classico Una guerra civile.
Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991), Bollati
Boringhieri, Torino 1994. La massima di Brecht è stata
tramandata da Walter Benjamin e proviene da una loro conversazione
del 25 agosto 1938: «Eine brechtsche Maxime:
“Nicht an das gute Alte anknüpfen, sondern an das schlechte
Neue»: cfr., in italiano, Conversazioni con Brecht. Appunti da
Svendborg, in id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura,
Einaudi, Torino 1973, p. 233. In chiusura, dopo filastrocche
e canzoni, va evocata una poesia di Andrea Zanzotto:
I compagni corsi avanti, dalla raccolta del 1957 Vocativo,
ora in id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e
G. M. Villalta, Mondadori, Milano 1999, p. 149.

Anpi3Roma
21 min readNov 23, 2023

--

--

--

Anpi3Roma

L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia è un’associazione fondata dai partecipanti alla resistenza italiana contro l’occupazione nazifascista.