28 NOVEMBRE 1943 NAPOLI.ULTIMA LETTERA DI GAIME PONTOR
L’ultima lettera di Giaime Pintor, scritta al fratello luigi prima della missione in cui resterà ucciso.
Fino a che punto, nell’autunno 1943, Roma fosse lontana da Napoli, oggi non si riesce a immaginare: poco più di duecento chilometri che ne facevano «una città isolata in una campagna quasi nuda. Non c’era quella continuità fra città e campagna che c’è invece nel nord». C’erano invece un fronte di guerra e la difesa allestita dall’esercito tedesco: la cosiddetta linea Gustav che tagliava l’Italia in due. Il giovane germanista Giaime Pintor, che dal principio di novembre si era deciso a lavorare direttamente per il servizio segreto inglese, era consapevole del rischio:
Per mio fratello. Napoli, 28 novembre 1943 Carissimo, parto in questi giorni per un’impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d’animo in cui affronto questa missione. Era un tentativo in extremis, perché l’ultimo varco del fronte stava per chiudersi. Pintor si munì di una tessera falsa della Milizia fascista a nome Ugo Giuseppe Stille. La partenza della missione Arnold era fissata per la mattina del 29, prima dell’alba; la lettera al fratello Luigi fu scritta la sera precedente: «È la conclusione naturale di quest’ultima avventura, ma soprattutto il punto d’arrivo di un’esperienza che coinvolge tutta la nostra giovinezza». Il ventiquattrenne Pintor parla al plurale: perché è il capo-spedizione, ma non solo per questo. Furono in cinque a partire. Castelnuovo al Volturno, ai piedi del monte Marrone, era l’estremo limite delle posizioni alleate, dopodiché bisognava superare nottetempo la catena delle Mainarde. In quella zona le pattuglie tedesche avevano abbandonato i sentieri: dopo averli seminati di mine, ma gli Alleati non lo sapevano. I cinque si divisero in due gruppi; Pintor-Stille rimase alla retroguardia col partigiano Ciotti. La strada era sbarrata da filo spinato; presero la via dei campi, ma dal terreno si vedevano spuntare i fili delle mine, mentre da una casa poco distante partirono colpi di fucile: l’operazione era fallita, e il gruppo decise di tornare indietro. Ciotti racconta: Qui avvenne la disgrazia. Andavamo curvi molto vicini l’uno all’altro. Stille stava dicendo forte a me e agli altri di fare attenzione alle mine, quando uno di noi due smosse dal terreno un filo teso a trappola: immediatamente una forte esplosione, proprio ai piedi di Stille il quale fu rovesciato indietro di colpo. Le mine erano così numerose che non si poté recuperare il corpo, rimasto a lungo insepolto. La famiglia Pintor, che era a Roma, avrebbe saputo della morte di Giaime solo il 18 febbraio 1944. In quella Roma dove cercò invano di ritornare, Giaime Pintor si era trovato già nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre e alla disintegrazione dello stato italiano: in quelle giornate convulse se n’era andato in giro armato di mitra e di una bandiera tricolore, incitando la gente a combattere contro i tedeschi che però avevano ormai preso il controllo del territorio. Prima di abbandonare la città aveva scritto un biglietto all’amico Mario Alicata, comunista: Carissimo, dopo aver fatto per qualche settimana il diplomatico e per due giorni il pistolero, la cosa migliore che io possa fare è di andare nel Sud, per cercare di mettermi in contatto con gli Inglesi e informarli della situazione che si sta sviluppando a Roma. Ti prego di voler comunicare questa mia decisione agli altri. La «nostra giovinezza», gli «altri». Da Roma, Pintor — che aveva il grado di tenente dell’esercito italiano – raggiunse Brindisi, dove erano fuggiti il capo del governo Pietro Badoglio e il re Vittorio Emanuele III: all’Ufficio informazioni del Comando Supremo trascorse «dieci pessimi giorni» che lo convinsero della totale inerzia dei militari, dell’impossibilità di riorganizzare un esercito regolare e della mentalità fascista radicata tuttora negli alti comandi. Per sua fortuna arrivarono a Brindisi lo storico Raimondo Craveri e il futuro ambasciatore Alberto Tarchiani, emissari di Benedetto Croce; erano venuti a parlare con Badoglio del progetto di organiz- Napoli, 28 novembre 1943 Al piano superiore, la Resistenza l’ultima lettera di giaime pintor, scritta al fratello luigi prima della missione in cui resterà ucciso. un partigiano elegante nella guerra antropologica: esistenze ad alzo zero. «fischia il vento al calascione »: longanesi e il senatore. mercutio vs amleto: la gioventú disponibile zare un corpo di volontari italiani. A Napoli, infatti, si era appena costituito un Fronte Nazionale della Liberazione: Pintor si convinse che aderirvi era l’unica via d’uscita, e con loro abbandonò Brindisi in jeep. Erano i primi dell’ottobre 1943. Proprio come la distanza Napoli-Roma, anche le settimane tra la caduta del fascismo e l’inizio della guerra civile sono una geografia bianca; Pintor lo spiega nel suo saggio Il colpo di Stato del 25 luglio: Le giornate che seguirono l’8 settembre furono le più gravi che l’Italia abbia attraversato da quando esiste come paese unito. […] In una guerra che aveva visto la tragedia della Polonia, il crollo della Francia e della Jugoslavia, nessuno spettacolo fu più tragico del disfacimento della compagine italiana. […] la lezione diretta che noi possiamo trarne, oltre a un generico sdegno, è la certezza del fallimento della classe dirigente italiana: questo fatto, mascherato per anni dietro ogni sorta di equilibrismi, oggi scoperto e evidente come una piaga incurabile. [Gli italiani] Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti. La caduta dell’impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione. Pintor scrisse queste pagine a Napoli, nell’ottobre 1943: con la lettera al fratello, sono l’altro suo testamento, dove non si parla di «morte della patria» bensì della fine di un regime, di una classe dirigente: di un’antropologia italiana. Eccone la conclusione: Ormai l’Italia uscirà da questa crisi attraverso una prova durissima: la distruzione delle sue città, la distruzione dei suoi giovani, le sofferenze, la fame. Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione. L’avvenire, anche immediato, era imperscrutabile: e allora, osservare la vicenda di Pintor con la massima attenzione — ad alzo zero, come trovandosi accanto a lui sul terreno — può essere un modo per raccontare il suo ultimo percorso senza tradirlo, rispettando la sua cifra umana che agisce nell’incertezza. «Aveva un autocontrollo assoluto, però con allegria», ricorda Aldo Garosci, dirigente del Partito d’azione. «Aveva una maturità quasi sconcertante, anche nei tratti fisici, e una mescolanza di aspetti estremamente infantili e gioiosi, che era poi di tutti noi». Pintor giunge dunque a Napoli ai primi di ottobre del ’43; sono appena finite le Quattro Giornate, la città ha saputo liberarsi dai tedeschi senza nessun aiuto dall’esterno. Il 10 ottobre viene affisso in città il Manifesto per la chiamata dei volontarî, steso da Croce. A organizzarli è Pintor, con l’aiuto di Garosci, Craveri, Tarchiani e Dino Gentili. Malgrado l’ostruzionismo e i divieti dei comandi alleati, che vedono di malocchio questa iniziativa italiana autonoma — una iniziativa, di fatto, antimonarchica e antibadogliana –, al quartier generale di piazza Carità si presentano in molti. I volontari affluivano: sbandati che venivano dal nord, spesso uomini magnifici; studenti, giovanotti napoletani, marinai che avevano preso parte alle giornate di Napoli. Ma mancava tutto. Erano state promesse, per cominciare, le razioni per duecento uomini e ne venivano date forse una ventina. Per superare lo stallo, il gruppo di Pintor crea il Centro italiano di propaganda, dove l’aggettivo italiano è orgoglioso ed essenziale: si tratta di un ufficio stampa per promuovere il reclutamento. Lo dirige un grande letterato antifascista, Francesco Flora; la sede è in viale Calascione 37, a Monte di Dio, al terzo e ultimo piano di un palazzo che domina il centro storico della città da un versante, la collina e la baia di Posillipo dall’altra parte. Così come i napoletani sono riusciti a liberarsi da sé, il gruppo di Pintor vorrebbe che a liberare Roma fossero dei partigiani italiani indipendenti. Ma l’accordo con gli Alleati fallisce senza rimedio. Per poter combattere, Pintor e i suoi amici si vedono costretti a collaborare con l’intelligence inglese; di qui, racconta Garosci, «gli scherzi di Giaime sui nostri vestiti da montagna, che ci autorizzerebbero a fondare una rivista di mode, “il partigiano elegante”». Di qui, anche, la rischiosa missione che partì da Napoli all’alba del 29 novembre: ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo: non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo. Quasi certamente, il germanista Pintor che scrive queste righe a suo fratello non aveva letto Bertolt Brecht; sapeva però, come Brecht, che per essere all’altezza del proprio tempo bisogna partire dalle cattive cose nuove e non dalle buone vecchie cose. Già quando lavorava come consulente per la casa editrice Einaudi, le sue proposte riguardavano testi che erano altrettanti referti della crisi europea in atto (Max Weber, Karl Löwith). Ma Pintor suggeriva inoltre libri che erano forse più utili an- Al piano superiore, la Resistenza 691 cora per capire la tragedia: libri opachi, o nemici, o infetti: le opere di Ernst Jünger, La dittatura di Carl Schmitt, I proscritti di Ernst von Salomon. «Io ho avuto fin da bambino il terrore dell’inutilità», aveva scritto Giaime a sedici anni. Sotto un regime fascista che militarizzava ogni giorno di più la vita quotidiana del popolo, Pintor visse la propria carriera militare come inerzia coatta, come servitù, come squallore di giornate uguali. Comandato a Vichy presso la Commissione italiana di armistizio con la Francia, soffrì la privazione della libertà e soffrì — lo scrive ancora negli appunti di diario — «questa guerra paurosamente astratta». Il lavoro diplomatico lo teneva al riparo, lontano dal fronte, ma lui voleva combattere, sia pure nella guerra sbagliata di Mussolini: costretto a una guerra astratta, ne avrebbe voluta una concreta e reale, pur sapendo di non potervi consentire. Sarà la guerra civile a rispondere, finalmente, al suo bisogno di realtà, di una «presa di possesso del concreto». Appena dopo l’8 settembre 1943, a fronte dell’apparato statale e dell’esercito italiano che si dissolvono, c’è una Resistenza che si organizza altrettanto dal nulla e senza nulla a disposizione. Alcuni pochi, collocati in ogni strato sociale e in ogni zona del paese, sapranno impegnarsi in un combattimento rivoluzionario: daranno origine a uno «stato d’eccezione» diverso da quello caro al filosofo Carl Schmitt che tanto affascina Pintor, perché non consegnerà il potere a un solo individuo ma lo ripristinerà per restituirlo a una nazione e a una cittadinanza rigenerate. La Resistenza, per i pochi che la combatterono lì e allora, è stata il nucleo di una diversa autobiografia della nazione. A dispetto delle ricostruzioni tendenziose, la maggioranza di quella minoranza attiva che la animò non aveva disegni precisi per il dopo: si limitava a praticare e custodire alcune passioni elementari, violente. Claudio Pavone ha parlato di tre distinte guerre che s’intrecciarono dentro la guerra civile italiana del periodo settembre 1943 — aprile 1945: la guerra patriottica contro i nazisti, la guerra civile contro i fascisti, la guerra di classe per instaurare il comunismo a battaglia finita. Forse è il caso di estrarre, dal subbuglio di quei venti mesi, una quarta guerra: una guerra antropologica, una lotta etico-politica che si combatté per fissare — nell’azione di guerriglia e nella postura morale, più che in scritti e discorsi — un carattere nuovo per l’identità italiana, un capitale morale per l’avvenire incerto. Fin dal 1941, in un saggio contro il «nuovo romanticismo», Pintor si proponeva di «sfuggire alla condizione di servitù che si prepara per le minoranze inutili». La missione che il 29 novembre del ’43 lo spinse a lasciare Napoli era un’operazione forse ininfluente sul corso del conflitto, ma necessaria per diventare parte di una minoranza utile all’Italia del postfascismo. Otto mesi dopo la sua morte, nell’agosto 1944, un personaggio insospettabile annotava — nella stessa Napoli dalla quale lui era partito senza ritorno — alcune frasi che Pintor avrebbe potuto parzialmente sottoscrivere: Scorro gli articoli di un settimanale letterario usciti oggi: Savinio, Moravia e gli inevitabili giovani intellettuali di ieri. Ma questi mesi hanno tolto ogni credibilità ad ogni critica, ad ogni opinione letteraria. Mi hanno tolto ogni sopportazione per ogni bel giudizio estetico. Di fronte ai resti di Formia o Arezzo, che il film del tale regista sia ritmico o aritmico mi sembra indifferente. Le parole del regista Stefano Vanzina, in arte Steno, suonano degne di rispetto, disilluse e gravi quali sono: adulte. Ventiseienne, Steno era fuggito da Roma undici mesi prima, il 16 settembre 1943, in compagnia del suo collega Riccardo Freda, del pugile Enzo Fiermonte e di Leo Longanesi, ingegno multiforme di giornalista, scrittore, pittore, editore. Dodici giorni dopo, a Torella dei Lombardi in Irpinia, i quattro avevano incontrato un’altra coppia di fuggiaschi da Roma: lo scrittore e regista Mario Soldati e il produttore cinematografico Dino De Laurentiis, originario appunto di Torella. Tranne l’unico ormai giunto a destinazione, il quintetto rimanente fece gruppo; racconta Soldati nel suo Fuga in Italia (1947): «Tenteremo insieme la sorte. Bisogna andare a Napoli, far qualche cosa, almeno guadagnarci da vivere finché non sia liberata Roma». I primi giorni napoletani furono da fame: finché, dinanzi al comandante del PWB — Psychological Warfare Branch, sezione propaganda della V Armata americana – che gli domandava cosa sapessero fare, Longanesi non eseguì di getto un disegno a penna: un teschio che indossava l’elmetto tedesco, decorato della croce di ferro con fronde di quercia e circondato di stoffe militari a brandelli. Sotto il disegno una didascalia: Germania 1945. Longanesi e Freda furono destinati al Centro italiano di propaganda. A loro e a Steno, Fiermonte, Soldati e Gabriele Baldini — giovane anglista, anch’egli profugo a Napoli — fu assegnato un appartamento di proprietà del libraio-editore Gaspare Casella, al secondo piano di viale Calascione 37. Al terzo, sopra le loro teste, abitavano Giaime Pintor che si faceva chiamare Ugo Stille, Dino Gentili che usava vari pseudonimi, Aldo Garosci, Alberto Cianca, il conte Carlo Sforza, Alberto Tarchiani: con Francesco Flora, l’intero stato maggiore dell’antifascismo insediato a Napoli. Erano i loro datori di lavoro: e Pintor aveva l’incarico di vigilare sui «letterati». Fischia il vento al Calascione tra le case diroccate: siamo cinque o sei persone mal nutrite, mal pagate. Fischia il vento. È già Domenica: l’avanzata come va? Sono fermi. È ancor Domenica: Roma sempre sta di là. 692 Napoli, 28 novembre 1943 La filastrocca Napoli 1944 fu scritta in collaborazione da Soldati, da Baldini e dagli altri. Rumorosi, litigiosi, istrionici, gli inquilini della «casa dei mimi» (così la chiamava Pintor) vennero impiegati nella redazione di un giornale di propaganda e in una trasmissione diffusa da Radio Napoli Nazioni Unite: Stella bianca, la prima trasmissione di satira dell’Italia libera. Tutti loro ne erano, di volta in volta, autori e interpreti. Lo speaker era Arnoldo Foà, ma era Steno a imitare la voce inconfondibile del Duce: «Il treno del fascismo si è fermato a…» Era fermo quel treno, e al secondo piano dei letterati esuberanti soprattutto Longanesi non sapeva più dove andare; lavorare per il pwb era solo un ripiego. Nelle loro prime difficili giornate, i profughi dall’Urbe avevano provato a farsi ricevere dal senatore Croce, riparato a Sorrento: sembrava la via più diretta per farsi riabilitare politicamente, ma l’unico non ammesso fu proprio Longanesi, cui Croce non poteva perdonare lo slogan il duce ha sempre ragione. Soldati, con agile opportunismo, si era dissociato da Longanesi e aveva ottenuto l’udienza: poteva oltretutto contare sull’amicizia delle figlie del filosofo, e sarà proprio Elena Croce, la primogenita, a stilare la diagnosi; per Longanesi quella fuga a Napoli segnò un fallimento decisivo. Aveva una educazione poco sportiva, sempre abituato a primeggiare divertendo, non sapeva incassare. […] la sua fiduciosità aveva già ricevuto un colpo (da cui non si sarebbe più ripresa) da quella che fra tutte queste esperienze era stata forse la più penosa, ossia la freddezza dimostratagli dagli antifascisti. Soprattutto gli era pesata quella degli uomini di pensiero, per cui egli aveva avuto sempre un misto di rispetto e di antipatia: Croce, Omodeo, uomini severi, che non avevano mai sorriso, nemmeno ai bei tempi, delle sue battute. Nel suo diario Parliamo dell’elefante, alla data 12 dicembre 1943, Longanesi registra l’arrivo di un tale M. al piano di sopra. «Egli si aggiunge al clan dei farisei che non ci lasciano in pace». Due settimane più tardi, 27 dicembre: M. viene a farci visita e ci racconta che «al senatore non piacciono» le nostre trasmissioni alla radio. Egli pronuncia la parola senatore con estrema soddisfazione. Il senatore! Questa parola l’udirete spesso qui a Napoli. Il re, il senatore, gli alleati, le Camel: ecco le parole più in voga oggi. […] Il senatore è un’ombra, un mito, qualcosa che sta fra il santo padre, la signora direttrice, l’oracolo di Delfo e il commissario di polizia. Napoli è divisa in due partiti: da un lato gli amici del senatore, dall’altro i nemici del senatore. Muovere qualche critica al senatore equivale a dir male della Libertà e chi vuol prendersi la libertà di muovere una critica, anche la più innocente, al direttore della Critica? Il nuovo arrivato M. era Umberto Morra, esponente del Partito d’azione. Sarà lui, nel recensire il diario di Longanesi, a notare che in due punti vi si parla di Giaime Pintor in modo diffamatorio. Il primo è alla data 6 novembre 1943; riguarda il corpo dei volontari italiani: G. mi spiega che i «volontari» dovrebbero essere inquadrati e comandati secondo il criterio dei rossi durante la guerra di Spagna; piccole pattuglie agguerrite, senza gradi, comandate dagli elementi più valorosi. «I gradi devono essere conquistati sul campo». «Ma hai visto le facce di questi volontari?» gli dico. «Che cosa c’entrano le facce?!» Se dobbiamo credere a un suo amico che era anche qualcosa come un suo allievo, Indro Montanelli, Longanesi era diventato antifascista — per sua stessa confidenza — il giorno in cui, in tram, aveva osservato il sedere di un console della Milizia che gli stava davanti. Ora la Resistenza veniva sottoposta alla stessa lettura fisiognomica, e bollata prima ancora di poter incominciare. L’altro punto del suo diario dove Longanesi parla di G., che ovviamente è Giaime, è del 20 novembre, nove giorni prima della missione Arnold. La citazione sarà lunga, ma è una pagina difficile da scorciare. Il Comitato antifascista che abita nel piano sopra il nostro ha una buona biblioteca, requisita al padrone di casa. Chiediamo di prendere qualche volume, per leggerlo. G. e gli altri mostrano una certa ostilità a questa richiesta, non per timore che non si restituiscano i libri, il che avverrà certamente, ma perché temono che noi si legga quei libri ch’essi non leggeranno mai. L’antifascismo è molto meschino, fatto di queste piccole ostilità, di questi ripicchi. Il clima che si respira qui a Napoli è quello dei collegi e delle sacrestie. La maggior preoccupazione degli antifascisti è quella di non allargare la propria cerchia, per timore che altri possano dire o fare qualcosa a cui essi non hanno pensato; e custodiscono i loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo delle vecchie zitelle contro le giovani spose. Quelli giunti dall’America o dall’Inghilterra, dopo anni di esilio, per lo più volontario, sono ritornati con la stessa mentalità con cui partirono, gli stessi principî già invecchiati, gli stessi ordini in saccoccia, e persino lo stesso cappello. Le loro voci, i loro gesti, quel particolar sussiego di chi ha tanto errato per la libertà testimoniano, anche all’uomo meno scaltro, la loro sfrenata ambizione. Pettegoli e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio rivoluzionario, ed abbiano viaggiato il mondo e vissuto fuori d’Italia per circa vent’anni, conservano modi e preconcetti provinciali. Il fascismo, per costoro, è un nemico personale, non un avversario; un nemico da cui sono stati privati per venti anni di potere, di cariche, di privilegi, vent’anni che nessuno potrà ora restituire loro. […] Se togliete loro la qualifica di «antifascisti» rimarrà ben poco, perché essi vivono in virtù del nemico. L’Italia è un qualcosa di astratto che ben poco li interessa, tutto al più un campo di battaglia, che dico, un parlamento, una piazza, una sala da comizi, uno sfondo sul quale rappre- Al piano superiore, la Resistenza 693 sentare la grande commedia democratica che stanno preparando da anni. Non li vedrete mai interessarsi a un preciso problema, economico o politico, non li vedrete perder tempo a segnarsi un appunto su una delle tante penose e insolute questioni del popolo napoletano; passano fra le rovine di questa città, nelle vie tristi e sudice, fra putridi mucchi d’immondizie, bimbi scalzi e denutriti, donne e uomini fradici di miseria e di malattie, passano senza volgersi, con le loro carte sotto il braccio, in fretta, senza perdere un attimo. Nulla li interessa; quel ch’essi vi diranno, se li interrogate, è che il fascismo è colpevole di tutto. Una pagina da antologia negativa: la sintesi — stilistica, ritmica, argomentativa — di tutto quanto da allora in poi verrà detto contro le minoranze politicamente attive, disposte a rischiare e a combattere, impegnate contro la furbizia dell’eterno italiano. Una piccola summa del qualunquismo o, per dirla in termini più aggiornati, della «zona grigia», del revisionismo storico: la matrice di ciò che sulla Resistenza scriveranno i Montanelli, i Malaparte, gli Ansaldo, giù giù fino ai loro eredi di oggi: quel teppismo benpensante che è lo stigma del giornalismo radicale di destra. Nel caso poi di Longanesi è teppismo adolescenziale: il contrasto di caratteri con l’adultità di Pintor è netto. Senza dire che, tra le accuse mosse a G., la più infondata e gretta riguarda l’ignoranza. Scrittore precocissimo, Pintor aveva collaborato con articoli satirici di costume a «Oggi», un settimanale in rotocalco (direttori Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio) realizzato ispirandosi all’esempio di Longanesi, che come giornalista era dotato di enorme talento innovativo. Su «Oggi» Pintor si firmava «Mercutio», ma aveva chiuso la sua rubrica non appena scoppiò la guerra, ai primi di settembre ’39, rivolgendo a se stesso il rimprovero che Shakespeare fa pronunciare a Romeo: «Peace, peace, Mercutio, peace! Thou talk’st of nothing». In quel frangente un Mercutio non poteva continuare a parlare di nulla; malgrado avesse soltanto vent’anni, i tempi non glielo consentivano più. Scriverà Pintor nell’ultima lettera: Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa. L’Italia è nata dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico episodio della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre minoranze per restituire all’Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza. Nell’autunno 1942 Longanesi aveva coniato un nuovo slogan: siamo in guerra, uno scossone al popolo italiano già rassegnato alla sconfitta. Pintor volle aderire alla semplicità di questo slogan, benché diffuso (è lui a scriverlo) dalla «propaganda ufficiale»; oggi sappiamo che quella propaganda di regime aveva il nome e cognome di Leo Longanesi, e sappiamo che l’inventore di quella frase non era in guerra, e avrebbe fatto l’impossibile per non doverne subire le conseguenze. Quello slogan, furono probabilmente i soli antifascisti a prenderlo sul serio: fischia il vento urla la bufera scarpe rotte eppur bisogna andar a conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir. È impossibile dire con certezza, oggi, se il Pintor che partì per la sua prima e ultima missione partigiana fosse un comunista militante oppure no. Il Pci rivendicò ben presto la sua eredità, ma è un fatto trascurabile in questa ricostruzione «ad alzo zero». Qui importa che il suo vento fosse diverso da quello che fischiava al secondo piano del Calascione; e qui non servirebbe a niente stabilire se queste frasi della sua ultima lettera fossero ispirate o meno dalla fede nel comunismo: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. Qui conta solo l’aggettivo «disponibile», perché disponibili erano, in quegli stessi mesi, Beppe Fenoglio e Leone Ginzburg, Primo Levi e Antonio Giuriolo; la loro disponibilità è la readiness di Amleto prima del duello finale con Laerte — «The readiness is all» — e non certo il «parlare di nulla» di Mercutio. «Mi ha sempre fatto ridere la gente che considera la morte come una probabilità, mentre la morte è evidentemente la sola probabilità, l’unica»: Giaime Pintor lo aveva scritto nel suo diario alla fine del 1940, quando aveva ventun anni. È stato evocato più volte questo diario di Pintor che in realtà non era un diario, tantomeno un giornale intimo: piuttosto un promemoria, un’agenda del proprio passato, un segnavia con lo schizzo del cammino percorso per arrivare fin là dove si trovava. Era un oggetto pratico, senza tenerezze e senza indugi: il cosiddetto «diario» di Pintor è un brogliaccio dove molte parole e spezzoni di frase sono lasciati in bianco; quando non gli veniva al volo l’espressione, Giaime saltava oltre, proseguiva senza fermarsi. Nella corrente della sua scrittura veloce le cose che vengono a mancare più spesso sono gli aggettivi, le apposizioni, gli avverbi: le parole che indicano una sfumatura o aggiungono il dettaglio “bello”. Pintor era un uomo sostantivale, tirava alla concretezza delle cose: non che prediligesse solo i verbi, l’a- 694 Napoli, 28 novembre 1943 Al piano superiore, la Resistenza 695 zione in sé e per sé (non era un fascista); la sua era attenzione responsabile. Per questo poteva permettersi di parlare al plurale: l’ultima lettera per suo fratello è un risultato di questo stile. Io sono in sostanza un impaziente ma non un impaziente che si butta a precipizio non curandosi di ciò che troverà innanzi a sé bensì uno che, studiato il terreno, vi si getta risolutamente. Può cadere ma più probabilmente arriverà prima di quello che à attraversato il terreno con calma e circospezione. Un Giaime sedicenne lo aveva scritto da Roma, il 17 gennaio 1936, a suo zio Pietro Pintor, generale d’armata. Otto anni dopo o quasi — quel 1º dicembre 1943 in cui saltò sulla mina del monte Marrone — c’erano, in Italia, troppi terreni infidi; Giaime Pintor aveva calcolato il possibile, si era mosso più veloce che poteva, aveva scritto il verbo avere senza la acca pur di andare più svelto. È caduto ma è arrivato lo stesso. Era giovane, aveva gambe buone: è corso avanti ed è arrivato prima di noi. «Roma sempre sta di là». domenico scarpa L’ultima lettera è stata pubblicata integralmente per la prima volta nel 1946: da Einaudi, nell’opuscolo commemorativo Giaime Pintor, 1919–1943. Le testimonianze più belle su Pintor — che sono anche i documenti più completi sulla sua ultima missione — si devono a Garosci: Un mese e mezzo con Giaime Pintor, in «Mercurio», I (dicembre 1944), n. 4, pp. 98- 106; La resistenza romana, in l. arbizzani e a. caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. II, Testimonianze, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 236–44; di qui (pp. 240–41) le parole iniziali su Roma lontana. L’opera fondamentale sulla vita e gli scritti di Pintor è m. c. calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Utet, Torino 2007, fonte di gran parte delle notizie contenute in questo saggio, tranne quelle relative ai contatti napoletani con Longanesi & C., qui ricostruiti per la prima volta; citazioni testuali: p. 19 il terrore dell’inutilità, p. 36 la lettera sull’impaziente circospetto, p. 419 il biglietto ad Alicata, p. 421 i pessimi giorni di Brindisi. Importante anche g. falaschi (a cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, manifestolibri, Roma 2005, dove si segnalano h. dorowin, Un illuminista sulla «via orfica e tumultuosa». Giaime Pintor e la letteratura tedesca, e la sezione di testimonianze, curata da M. C. Calabri: qui si sono rivelate utili quelle di Filomena d’Amico, di Garosci, di Gastone Manacorda e di Luigi Pintor. Per il Manifesto dei volontarî e per la situazione politica sull’asse Brindisi-Napoli rimando a b. croce, Taccuini di guerra, 1943–1945, a cura di C. Cassani, Adelphi, Milano 2004. Rapporti tra Pintor e i servizi segreti inglesi in m. canali, Il mito del «compagno Giaime Pintor» tra Pci e servizi segreti inglesi, in «Nuova Storia Contemporanea», XI (luglio-agosto 2007), n. 4, pp. 31–42, dove però alcune informazioni, presentate come novità assolute, erano note da tempo. Gli scritti di Pintor escono postumi nel 1950 da Einaudi, col titolo Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (1939–1943) a cura di V. Gerratana; si cita Il nuovo romanticismo («Primato », 15 agosto 1941), p. 162; ivi, inoltre, una scelta delle Cronache semiserie a firma Mercutio. Il saggio Il colpo di Stato del 25 luglio era già uscito a New York nel 1944, nel quarto dei «Quaderni italiani»; oltre che nel Sangue d’Europa è raccolto nell’opuscolo, a cura di F. Antonicelli, Il colpo di Stato del 25 luglio e alcune pagine e documenti inediti, Einaudi, Torino 1974, dove si legge anche il rapporto del partigiano Ciotti. Utile quanto discutibile sul piano filologico è, di Pintor, il Doppio diario, 1936–1943, a cura di M. Serri, Einaudi, Torino 1978, dove alle pp. 112–13 troviamo la guerra astratta, il possesso del concreto e il «siamo in guerra». Di Steno si cita Sotto le stelle del ’44, a cura di T. Kezich, Sellerio, Palermo 1993 (annotazione del 6 agosto 1944, p. 27). I resoconti della fuga Roma-Napoli e del soggiorno napoletano sono, rispettivamente: m. soldati, Fuga in Italia (1947), a cura di S. S. Nigro, Sellerio, Palermo 2004, da cui si cita l’annotazione del 29 settembre 1943, p. 88; in appendice a questo volume, Il Canzoniere del profugo, che figurava solo nella prima edizione, corredato dalla Noterella quasi filologica di Gabriele Baldini (già in «La fiera letteraria», 11 aprile 1948) che commenta Napoli 1944; r. freda, Divoratori di celluloide. 50 anni di memorie cinematografiche e non, a cura di G. Fofi e P. Pistagnesi, Emme Edizioni, Milano 1981. l. longanesi, Parliamo dell’elefante (frammenti di un diario), Longanesi, Milano 1947. Altre fonti biografiche su Longanesi: i. montanelli e m. staglieno, Leo Longanesi, Rizzoli, Milano 1984, pp. 262- 264 (sul disegno Germania 1945 e sulla permanenza a Napoli); i. montanelli, Addio a Longanesi, in «Corriere della Sera », 29 settembre 1957 (il sedere del console); e. croce, Leo Longanesi, un maestro della nostra editoria, in «Elsinore», I (febbraio 1964), n. 3, pp. 5–27: citazione dalle pp. 22–23. La recensione rivelatrice di Umberto Morra, dedicata a Fuga in Italia e a Parliamo dell’elefante, s’intitola L’Italia in rovina: è in «Il mondo europeo», n. 47 (15 luglio 1947), p. 9. Di Claudio Pavone si rimanda all’ormai classico Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991), Bollati Boringhieri, Torino 1994. La massima di Brecht è stata tramandata da Walter Benjamin e proviene da una loro conversazione del 25 agosto 1938: «Eine brechtsche Maxime: “Nicht an das gute Alte anknüpfen, sondern an das schlechte Neue»: cfr., in italiano, Conversazioni con Brecht. Appunti da Svendborg, in id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino 1973, p. 233. In chiusura, dopo filastrocche e canzoni, va evocata una poesia di Andrea Zanzotto: I compagni corsi avanti, dalla raccolta del 1957 Vocativo, ora in id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Mondadori, Milano 1999, p. 149.