6 febbraio 1934, quando a Parigi batteva il cuore della rivoluzione “Da qualche tempo Parigi era in subbuglio. C’era una spinta vaga e insistente della folla attorno a quel luogo dove sedeva un’altra folla e che ironicamente si chiama, per il rancore della Storia verso le dinastie scomparse, palazzo Borbone. C’era una rivolta nell’aria, a causa delle esazioni un po’ più ciniche e un po’ più provocanti del solito della vecchia banda radicale che regge la Francia e che sarà sempre lì, al suo capezzale, nell’ora della agonia. Camminando lungo il marciapiede angusto, Gilles levava lo sguardo verso quei pochi alberi patrizi che ancora esistono per non privare la Senna del saluto che le spetta. Si fermò una volta di più per ammirare quell’angolo che forma il Louvre sulla curva del fiume. E’ tanto tempo che quell’angolo taglia il cielo, eppure esso mantiene tuttora il primato della bellezza su una città che è stata una delle più belle della storia umana, eche tale resta nonostante gli inenarrabili sgorbi dei nostri tempi. Gilles cammianva verso la Concorde e a poco a poco penetrava in quel grande vuoto che all’improvviso si stende in mezzo alle città malate. (….) Le aveva studiate dappertutto, queste folle, sia nelle riunioni di sinistra che in quelle di destra. Aveva sentito sbraitare l’Internazionale così come la Marsigliese. Questa volla di oggi, vomitata dalla metropolitana, sarebbe ringhiottita da quel mostro fetente e senza fondo. Quel silenzio, quel vuoto che si stendevano lungo i marciapiedi e nelle Tuileries, gli ricordavano altri momenti che aveva vissuto nel mondo: una rivoluzione nell’America del Sud, certe giornate a Berlino tra la fine del 32 e l’inizio del 33, altre in Spagna. Era stato chiamato come da un presentimento per essere il testimonio furtivo ma smpre più acuito di segreta veemenza, di certi avvenimenti precursori. Oggi, qui, non sarebbe successo nulla. In questa parte dell’Europa non succedeva niente se non quache contraccolpo impotente e snervato. Il movimento sovversivo dell’Europa, comunista e poi fascista, moriva qui. Tuttavia, per un’ultima volta, era tentato di saggiare questo polso infiacchito dai secoli. Andò fino all’angolo dell’Orangerie. Il ponte della Concorde era sbarrato da guardie e poliziotti coi camion. Fronteggiavano qualcosa che non c’era. Quante volte aveva assistito a questi assembramenti della polizia contro nulla o quasi nulla. Sotto le balaustre delle Tuileries c’era anche una massa di guardie a cavallo. Uomini e bestie guardavano affascinati lo spazio vuoto. In fondo, ciò che pareva il normale brulichìo della rue Royale si arrerstava preciso di fronte a un’esigua linea di poliziotti. Si disse: “Di là non succederà niente; se qualcosa deve succedere, sarà come gli altri giorni, sulla riva sinistra”. Passò il ponte di Solferino e fu su quella riva. Fece il giro della Camera seguendo straduzze sbarrate. Sempre spazi vuoti, con a capo il raggruppamento tetro della polizia. Attraversò l’Esplanade e fu di nuovo sulla Senna. In un angolo, sotto gli alberi, un folto gruppo di gente aspettava, in silenzio. I manifestanti di poco fa. Avvicinandosi fu sorpreso dalla loro serietà. C’era una collera vera nei loro occchi. Si sentì preso dall’emozione e vagamente affascinato. Poco a poco quei mucchi di polizia attorno al vecchio Parlamento settecentesco gli sembrarono meschini, minacciati, rosicchiati dallo spazio e dal silenzio. Era esattamente così che si raffigurava il regime: immobile, inerte, al limite di una prospettiva vaga, raggrinzito in ifnimi calcoli. Dal ponte Alexandre, raggiunse gli Champs-Elysées. Tutt’attorno al Gran Palais un’altra massa di manifestanti, enorme questa, attendeva. Corpi immobili, occhi nervosi attorno a bandiere. Era forse tutta una fantasmagoria? Nei pressi dell’Eliseo entrò in un giornale dove aveva degli amici. Erano preoccupati, scuotevano il capo, facevano previsioni contraddittorie. Nessuno sapeva niente, ognuno, dal direttore fino all’ultimo cronista, aveva informazioni particolari e curiose, ma frammentarie. La ignoranza e l’incertezza di tutti era fatta anche della paura di compromettersi. In mezzo a questi incerti presagi Gilles si irritava sempre e lanciava qualcuna delle sue frasi profetiche, per riportare in quell’universo le forze che ne sembravano bandite: il fatale, il decisivo, l’irrimediabile. Così finiva egli stesso per credere a certe possibilità che il suo scetticismo considerava assolutamente esculse e l’isolamento si creava attorno a lui: forse era un fanativo. Gli intriganti lo consideravano inutile e i timidi pericoloso. Lo stavano a sentire con astioso rammarico e pok con pronto e minuzioso rancore, dimenticavao i suoi pronostici. — Cosa crede che succederà, Gambier? — chiese ironicamente il redattore parlamentare. Era un vecchio pederasta reazionario, della specie lamentosa e abbattuta. — Cosa fanno i comunisti? Ecco il punto — rispose Gilles. L’altro aggrottò le ciglia. — Ah! se i nazionali potessero trascinarli a un’alleanza momentanea contro i radicali, allora forse succederebbe qualcosa in Francia. — Non si augurerà questo spero — strillò il vecchio pederasta, diventando verde. Tremava nel grande ufficio scintillante. — Sì, qualsiasi cosa, purché quella vecchia baracca laggiù, in riva all’acqua, crolli. L’altro scandalizzato e sprezzante, si chinò sul telefono che squillava. Gilles si ritrovò per strada. Ripensava a questa immagine inebriante e desolata, di piazza de la Concorde. Questo teatro di pietra e di cielo restava solo e come puramente restituito a se stesso; la polizia e il popolo, rincantucciati negli angoli, rinunciavano ad occupare la scena. Così finisce la Storia. Anche gli italiani si sono mossi per tre secoli in uno scenario simile. In rue Royale trovò una folla ancor più numerosa del previsto, una folla composta in maggioranza di uomini. Andavano, venivano, tornavano indietro. Gilles notava quell’enorme giostra, ma scuoteva il capo, in una disapprovazione ostinata. “E’ troppo tardi ormai, non accadrà nulla. Non accadrà nulla”. Tutto a un tratto, mentre risaliva verso place de la Concorde, un rumore, un alito bruciante, lo colpirono in faccia. Un’altra folla rifluiva da quella piazza che aveva creduto vuota quando si era fermato al giornale. La folla spingeva un tassì e sul tetto del tassì un uomo coricato sosteneva altri uomini aggrappati. C’era sangue. Visi ardenti, insanguinati balzarono verso di lui, dei corpi balzarono, animati da una improvvisa frenesia, con nitriti, con scatti folli: sembrava un branco di puledri che ha infrnato una barriera. — Sparano — gridavano, prendendolo a testimone con una fiducia irresistibile. Mani lo agguantarono rudemente. Occhi lo interrogarono con un appello appassionato. “Vieni con noi”. La sua giovinezza tornava e si univa a quella giovinezza. Dunque s’era sbagliato? Si, perdio, s’era sbagliato. Così non aveva creduto nella guerra, nel 14. A forza di rivoltarsi nel fango, non avvertiva più la spinta del destino. La Francia riceveva finalmente il carico di tutta l’Europa, del mondo intero in movimento. In un attimo fu trasfigurato. Guardandosi a destra e a sinistra si vide al fianco l’antica coppia divina, la Paura e il Coraggio, che presidia alla guerra. Le sue fruste ardenti schioccarono. Si lanciò incontro alla folla che rifluiva. Come una sera in Champagne, quando la prima linea aveva ceduto; come quella mattina a Verdun, dove era arrivato col 20° corpo, quando tutto era già stato consumato dal sacrificio delle truppe di copertura. Corse verso l’obelisco, e oltre. Era solo. Una donna smarrita sul bitume lo invocò come se fosse la sua amante, fece qualche passo verso di lui, si fermò, poi indietreggiò e poi lo lasciò solo. Vide davanti a sé il ponte, la tripla linea delle guardie, immobili come se nulla fosse stato. A destra, all’entrata degli Champs-Elisées ardeva un autobus rovesciato. Degli uomini si agitavano attorno a quel subitaneo rogo, scaldandosi alla fiamma. Al di là, accanto al Rond-Point, si vedeva una grande massa irta di bandiere, che si agitava un po’: gli ex Combattenti. A partire da quel momento fu trascinato nel vortice, di volta in volta sferzante e fiacco, dalle folle che scaturivano e rifluivano, compatte e smarrite. Sul bel teatro di pietra e di cielo, un popolo e una polizia, parti distinte di un coro, cercavano vanamente di legare insieme le loro furiose debolezze. Gilles correva da una parte all’altra, dove la pienezza gli appariva nella notte e nei lucori e, quando arrivava senza fiato, trovava un quadrato di asfalto che un copro riverso non poteva colmare. — Ma non volete rendervi conto di cosa sta succedendo. Questo popolo non è morto, come credevamo dentro di noi, il popolo si è risollevato dal suo letto di torpore. Questo popolo che ha abbandonato villaggi, chiese, che è venuto a chiudersi nelle fabbriche, negli uffici e nei cinema, non ha affatto perduto la fierezza del suo sangue. Ora che il furto, il sopruso trasudano, si affermano, gridano da ogni parte, non ha potuto più resistere a una così potente sollecitazione delle Erinni, ed è sceso sulle piazze. Ora tocca a voi, agli uomin politici, preciparvi fuori, di fronte a lui. Uscite dai vostri corridoi. I capi si mescolino al popolo, come hanno fatto i soldati. Perché i soldati, Clérences, si sono mescolati al popolo. Ho visto io su questa piazza i comunisti accostare i nazionali: guardarli, osservarli turbati e invidiosi. C’è mancato poco che si incontrassero, in un miscuglio stridente, tutti gli ardori di Francia. Capisci, Clérences? Corri dai giovani comunisti, indica loro il nemico comune, il vecchio radialismo corruttore. Clérences guardava con stupore, impaccio e amarezza, Gilles ancora tutto ansante per la notte del 6 febbraio. (…) Questi gridò a Clérences: — Quando un uomo si leva e butta il suo destino nella bilancia, farà ciò che vorrà. Raccoglierà nella stessa rete l’Action Française e i comunisti, i Giovani Patrioti e le Croci-di-Fuoco e tutti gli altri. Non vuoi provare? (….) — Hai perso la testa — digrignò Clérences, muovendosi appena per schiacciare una cicca nel portacenere. (…) — Certo che l’ho persa. E me ne vanto. Sì, ho perso la testa e me la faccio tagliare. Ecco di che cosa soffrivo da vent’anni, di non sapere dove sbattere la testa. — (….) Esci, liberati in ogni modo della vecchia routine dei vecchi partiti, dei manifesti, delle riunioni, degli articoli e dei discorsi. Avra subito una potenza di attrazione formidabile. Cadranno per sempre le barriere tra destra e sinistra, e onde di vita scaturiranno in tutti i sensi. Non senti questo momento di grande marea? L’onda è lì, davanti a noi: si può dirigerla nella direzione che si vuole; ma bisogna dirigerla subito, a tutti i costi. (….) Si buttò verso i quartieri operai. Cosa avrebbero fatto i comunisti? Aveva invano supplicato qualche capo della destra di entrare in trattative con loro. La dittatura massone non poteva essere validamente rovesciata se non da una coalizione di giovani borghesi e di giovani operai. Telefonò a Galant, divenuto funzionario comunista, con cui ce l’aveva a morte da tanti anni. Una voce spigolosa gli rispose ceh solo il proletariato poteva fare una rivoluzione e che l’avrebbe fatta a suo tempo. Mentre camminava per le strade, si diceva: “Ecco, tutte le forze divise sono pronte, per una radunata miracolosa. Manca una cosa sola, lo slancio vitale che spinge ciascun sussulto verso un tutt’altro sussulto”.
Così la giornata del 6 febbraio 1934, descritta da Pierre Drieu la Rochelle in “Gilles”, uno dei suoi romanzi più famosi. (traduzione italiana di Luciano Bianciardi, Sugar Editore, Milano, 1961). Quella sera di febbraio, nazionali e comunisti formarono vari cortei antigovernativi accumunati da slogan come “Abbasso i ladri!”. Una folla valutata in 50.000 manifestanti tentò di marciare contro i palazzi del potere. La reazione fu durissima: la polizia sparò sui dimostranti causando 16 morti e quasi 700 feriti. L’indecisione dei capi politici di destra e di sinistra rese vano il sogno di abbattere un Regime corrotto. Drieu la Rochelle era tra i manifestanti. Prima di affidare al romanzo (che uscirà censurato nel 1939 e nella versione integrale solo nel 1942) le sue sensazioni, le sintetizzò dopo pochi giorni in un articolo: “Tremila persone a Place de la Concorde, tremila alla Gare de l’Est. Intorno a loro, una folla attenta e inquieta. Gli uni si dicono patrioti, gli altri comunisti. Indubbiamente non è la stessa cosa. Ma tuttavia questi uomini erano simili per quell’aspetto che in loro più mi colpiva. Erano uomini che con lo stesso gesto spontaneo e generoso offrivano il loro sangue e prendevano quello altrui. L’una cosa non va senza l’altra e si tratta in ogni caso di una prova d’amore…. Comunisti, patrioti: non è la stessa cosa… Tuttavia ben vicini, gli uni e gli altri. A un certo punto, verso le dieci, era martedì, nella Rue Royale, fra la folla che si precipitava verso Place de la Concorde sper subire le fucilate delle undici, si cantava alla rinfusa la Marsigliese e l’Internazionale. Avrei voluto che quel momento fosse durato per sempre”.