#italianibravagente #farememoria
“…Io sono senza padre. È stato fucilato dagli Italiani. Un giorno sono entrati nel mio paese. Ci hanno fatto uscire dalla casa. Tutti piangevamo disperati ma mia mamma era quella che forse piangeva di più. Hanno preso e rinchiuso mio padre. Con lui hanno portato via tanti altri uomini. Poi ci hanno fatti andare in fila verso il paese di Zamost dove hanno fucilato dodici uomini. Tra questi c’era anche mio padre. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto tanto. Poi hanno bruciato la nostra casa e ci hanno portati verso l’internamento.”
Drago Kaličič di 10 anni
“…Dalle nostre montagne ci hanno trasportato fino a Bakar, un’ insenatura a sud di Fiume, dove abbiamo dormito all’ addiaccio. Mio nonno stette tutta la notte a ripetere che ci avrebbero buttati in mare. Il giorno seguente partimmo senza sapere dove ci portassero. Giungemmo a Rab, dove ci divisero per sesso e per età. Praticamente ci avevano diviso definitivamente. Io che ero senza madre dovetti lasciare mio padre e mio nonno per andare nella parte del campo riservato alle donne e ai bambini. La paura di restare solo mi fece urlare e piansi così fino al giorno successivo, quando mi trasferirono in un campo intermedio. Mio padre non l’ ho più avuto vicino e soltanto a Gonars mi riferirono, alcuni mesi più tardi, che era morto. Dormivamo in tende vecchie e logore che facevano passare l’acqua e dove si entrava a carponi. La latrina era molto lontana e di notte facevamo fatica a raggiungerla. Nel caldo torrido dell’estate non si poteva trovare alcuna ombra. Pativamo la sete, la fame e l’attacco di una moltitudine indicibile di pidocchi. Il ruscello che scendeva dal campo maschile e attraversava il nostro campo era pieno di pidocchi e non ci si poteva lavare. Quando arrivava la cisterna dell’acqua le guardie si scostavano e noi ci buttavamo come pazzi su quel fievole rivolo d’ acqua. Quando pioveva il campo diventava una distesa di fango impercorribile. La sporcizia ci faceva impazzire.”
Herman Janež di anni 7
“..In una mattina fredda e piovosa di dicembre ci hanno fatti salire su una nave stracolma che avrebbe dovuto trasportarci non si sapeva dove. Quel giorno fuori dal porto si vedevano le onde alte e burrascose. La stiva era stipata da tantissima gente, però qualcuno ebbe pena di me e del mio bambino e ci fece sedere nella stiva riparati dalla pioggia e dall’acqua di mare. Giungemmo a Fiume la mattina seguente, infreddoliti e affamati. Ci diedero una tazza di caffè e un pezzo di pane, prima di farci salire sul treno che ci trasportò fino a Palmanova. Poi con dei camion venimmo trasportati al campo di concentramento di Gonars dove ci misero nelle baracche. Per noi era una meraviglia sentire la pioggia e rimanere asciutti, perché a Rab, se pioveva, anche stando nelle tende eravamo tutti bagnati. Ci portarono poi in infermeria per disinfestare i nostri vestiti dai pidocchi e farci fare la doccia. Chiesi a qualcuno che stava lì dove dovevo posare il mio bambino prima di entrare nel reparto docce e mi dissero di posarlo su un mucchio di stracci per quel po’ di tempo. Ma appena entrata nello stanzone qualcosa mi fece uscire per vedere se il mio bambino fosse sempre lì. Mi si strinse il cuore, quando vidi che non c’ era più. L’inserviente alla fornace a vapore dove passavano i vestiti per disinfestarli dai pidocchi aveva preso il mucchio dove avevo posato il bambino gettandolo nella stufa. Per fortuna non l’aveva ancora attivata e un gemito si sentì proprio in quella direzione. Corsi verso quella stufa a vapore come una matta riprendendomi il mio bambino. Mia suocera mi aiutò molto, asciugando i pannolini bagnati sulla schiena. Ma alla fine questo bambino non sopravvisse e non sopravvisse neppure mia suocera e neanche il bambino che dovevo ancora partorire.”
Marija Poje
“…A Gonars si pativa una tale fame che faccio meglio a non pensarci. Mangiavamo anche le bucce che i cuochi buttavano nella fossa delle immondizie. Una volta siamo caduti tutti quanti in questa fossa e io ero sotto. Gli altri sono cascati sopra di me. Avevo male alle ossa. Ho trovato poche bucce. E’ stato così triste a Gonars.”
Milan Cimprič di 9 anni
“..Siamo stati deportati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicine al mare. Dormivamo sulla terra nuda. Una notte mentre dormivamo, il vento incominciò a soffiare ed incominciò a piovere. L’alta marea era cresciuta e l’acqua ci arrivò fino alle ginocchia. Abbiamo pianto e chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciarono uscire dal recinto. Il mare continuò a crescere e molti bambini morirono annegati, mentre i nostri vestiti furono trascinati via dall’ acqua. La mattina dopo la burrasca si calmò e uscì il sole asciugando e scaldando i nostri corpi, scossi dal freddo e dalla paura.”
Ivan Štimec di 10 anni
“…Sono stata internata per 9 mesi. Pensavo spesso alla mia casa perduta. Ma quello che mi faceva piu’ male era il pensiero del nostro bestiame. Quelle che preferivo erano le mucche, perchè ci davano tanto latte. Si chiamavano Ruska e Breza. Quando dovevo pascolarle, pensavo che era difficile pascolare sempre le mucche. Ma durante l’internamento dove non avevamo né da mangiare né da lavorare, pensavo a quanto fosse bello essere sazi e pascolare. Dio, fa’ che possiamo avere ancora del bestiame.”
Vera Cimprič di 9 anni
“…Tutti ci chiamano internati perché siamo stati internati. Siamo stati a Treviso. Avevamo tanta fame. A Treviso e’ morto mio fratello. Avevo ancora un fratello. Quando è ritornato dall’internamento è morto all’ospedale di Sušak. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto molto.”
Mrle Slavka di 9 anni
Nell’aggressione italiana alla Slovenia, anche i bambini, al pari delle generazioni adulte, pagarono il loro prezzo in termini di violenza e terrore. Conobbero fatalmente anche i rastrellamenti, gli incendi, la morte, lo stigma razziale e nazionale, la snazionalizzazione forzata e la deportazione nei campi di concentramento dove andarono incontro all’eliminazione fisica nella forma più brutale. Quando la guerra nella provincia di Lubiana divenne totale, gli adolescenti, assieme ai loro genitori, si ritrovarono in una condizione di disorientamento e smarrirono la propria gioventù.Che i bambini fossero l’anello più debole della catena dei diseredati finiti nei campi di concentramento italiani, lo conferma l’«amnesia» della direzione dei campi stessi, che dimenticò di annotare, tra i 25.000 internati sloveni, il numero dei bambini che fecero il loro ingresso nel campo, il numero di quelli che vi nacquero e che vi persero la vita. Alcuni dati sporadici della fine di agosto del 1942 parlano, per il campo di Arbe, di 1000 bambini sotto i 16 anni, mentre per il campo di Monigo presso Treviso i dati a nostra disposizione per il 1943 parlano di 979 bambini su 3.188 internati. Anche se sulle deportazioni e sull’occupazione italiana della provincia di Lubiana, esiste oggi in Slovenia una vasta documentazione, molti dati sui campi sono tuttora irreperibili, sia per la fretta con la quale le forze d’occupazione lasciarono la Slovenia, sia perché le autorità, nella loro ignominia, non badavano troppo alle cifre dei vivi o dei morti, degli arrivi e delle partenze, delle nascite e dei decessi nei campi.
Accostando le storie dei bambini ai dati d’archivio si può intravedere una realtà agghiacciante. Come riferiva il generale Giuseppe Gianni, da luglio a novembre 1942, solo nel campo di Rab — Arbe morirono ben 104 bambini.
Metka Gombač
Storica e archivista, direttrice del Settore per la conservazione
del materiale archivistico risalente alla Seconda guerra mondiale presso
l’Archivio della Repubblica di Slovenia
Nella foto bambini nel campo di concentramento italiano di Arbe