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“…Il medico Giuseppe Jona, presidente della comunità ebraica di Venezia, si tolse la vita pur di non consegnare alla Gestapo nominativi e indirizzi di tutti gli iscritti “
Cannaregio 3826. Un indirizzo veneziano, a un passo dalla Ca’ d’Oro, lungo la Strada Nuova, dove si trova una pietra d’inciampo dedicata a Giuseppe Jona. Un numero civico, un nome e una storia. Tragica, come vedremo. Ma che è bene difendere dall’oblio e dalle interpretazioni sottili. Basta un raggio di sole perché il cubo dorato si illumini. E come tutte le cose illuminate racconti quello che è accaduto in un tempo ormai lontano che si porta via uno dopo l’altro i testimoni diretti, sempre più silenziosi. Giuseppe Jona, medico, ebreo. Nacque nel 1866 in Laguna. Crebbe con l’orgoglio di appartenere a una giovane nazione che aveva aperto le porte dell’ultimo ghetto ancora esistente al mondo: quello di Roma, scardinato dai bersaglieri nel 1870, dopo Porta Pia. Studiò all’Università di Padova e divenne uno dei medici più apprezzati del suo tempo: scienziato e professionista al tempo stesso. Cattedratico e sufficientemente umile da accogliere nel suo studio anche chi non poteva pagare. «Giuseppe Jona? Un patriota!», gridavano i dispacci del ministero dell’Interno dopo Caporetto, quando l’Italia sembrò sul punto di crollare e Jona, in qualità di consulente medico-legale dell’insieme degli ospedali militari, aveva dato «tutta la sua opera infaticabile di cittadino alla Patria». Insomma, Jona era un figlio illustre di Venezia (che oggi lo ricorda avendogli dedicato un padiglione del «suo» Ospedale Civile, diventato poi Santi Giovanni e Paolo), e soprattutto del Regno. Uno scienziato rispettato che aveva contribuito a elevare la conoscenza della medicina al passaggio tra i secoli e che nulla immaginava, allora, di quanto differente sarebbe stata la vita sua e dei suoi correligionari di lì a qualche anno.
Jona era ebreo ma, come accade in tutte le comunità religiose, apparteneva al novero di chi considerava la preghiera un fatto privato. Era immerso nella sua vita laica e manteneva un legame leggero con le tradizioni della sua famiglia. Eppure, quando capì quale tempesta stesse per piombare sugli ebrei, fece, con coraggio tutto quello che gli fu possibile per evitare la catastrofe. Le pietre di inciampo che costellano le calli di Venezia ci dicono oggi che le sue azioni non furono sufficienti a salvare tutti. Ma molte vite furono protette dal coraggio e dalla determinazione di un uomo che fu coerente con se stesso fino alla morte, decisa per propria mano. Il medico ormai in pensione dal 1936, cui il fascismo, dopo l’infamia delle leggi razziali (1938) aveva comunque strappato tutto quello che gli era rimasto della sua competenza, dalla libera docenza all’iscrizione nell’albo professionale, nel 1940, per senso di responsabilità, accettò il ruolo di presidente della Comunità ebraica veneziana, che aveva il suo centro nel Ghetto, a pochi canali di distanza dalla sua casa. Dopo l’8 settembre del 1943, con l’armistizio e l’improvvida consegna dell’Italia ai nazifascisti, la situazione per gli ebrei di tutto il Paese si fece da drammatica a disperata, come scopriranno il 16 ottobre i romani, rastrellati in una notte e poco più e mandati a morire nei campi di sterminio. Il dottor Jona non visse quel giorno, non seppe nulla della tragedia che devastò la più antica comunità della Diaspora, presente nella Capitale sin dai tempi dell’Impero Romano (quello vero, non la caricatura mussoliniana). Non seppe nulla perché — avendo capito tutto — di fronte alle insistenze delle autorità di consegnare i registri con i nomi e gli indirizzi di tutti gli iscritti, aveva preso tempo. Poi, sapendo che la disobbedienza agli ordini dei tedeschi (anche quando rappresentati dai fascisti italiani) significava comunque la morte, il 17 settembre del 1943, dopo aver bruciato e distrutto tutto quanto negli archivi comunitari potesse portare a una singola famiglia, si tolse la vita. Ai funerali le autorità posero il limite di dieci partecipanti: sufficienti a costituire il minyan (numero minimo per la recita pubblica delle preghiere) e permettere dunque di pronunciare il Kaddish. Ma non abbastanza per dimostrare l’amore di Venezia per quel suo cittadino, ebreo, che tanto aveva fatto, non soltanto per gli ebrei. Le cronache riportano una processione silenziosa di gondolieri in suo ricordo. E anche le maldicenze ufficiali che attribuirono il suicidio a «problemi personali». Gli avvenimenti successivi illuminarono la verità del suo coraggio. E ancora oggi c’è chi lo ricorda per le vite che contribuì a salvare.
Paolo Salom
Corriere della Sera