UN “INFOIBATO” IN MENO, UN PARTIGIANO TRUCIDATO DAI NAZIFASCISTI IN PIÙ
Antonio Ruffini è nato a Termoli, in Molise, il 16 aprile 1921. Figlio di Donato, ferroviere, e di Concettina Mucci, nel 1927 rimane orfano del padre, morto in un incidente sul lavoro. La madre rimane sola con tre figli, Antonio, Cleofino e Maria. Antonio è il maggiore e nel 1928 viene accolto presso il Convitto nazionale di Veroli, dove rimane per 12 anni, fino al conseguimento del diploma magistrale (maestro elementare) nell’estate del 1940. Subito dopo si iscrive all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, ma già nel febbraio del 1941 viene richiamato alle armi. Pur avversando la guerra Antonio non può che rispondere alla chiamata e viene spedito in zona di guerra con il 31° reggimento fanteria. In settembre viene ammesso al corso ufficiali di complemento a L’Aquila. Nell’aprile del 1942 viene nominato sottotenente di complemento e il 16 aprile giunge al XVI deposito G.a.f. (Guardia alla Frontiera) di Tolmezzo. Nel maggio dell’anno seguente viene trasferito al 153° regg. Fanteria mobilitato a Trieste, che opera in territorio dichiarato in stato di guerra (nella zona tra Divača (Divaccia), Sežana (Sesana), Ilirska Bistrica (Villa del Nevoso) e Pula (Pola)). Nel giugno del 1943 viene trasferito al 53° regg. della divisione »Sforzesca«, in ricostruzione a Trieste dopo le gravissime perdite subite in Russia. Il 31 marzo 1943 la famiglia riceve la sua ultima cartolina, poi arriva l’8 settembre. Antonio, come centinaia di migliaia di soldati del Regio Esercito, si »sbanda«. Nel suo stato di servizio l’ultima annotazione è del 21 febbraio 1947: »Disperso a Capodistria (Istria) durante lo sbandamento nel marzo 1944«.1
Ma perchè quel riferimento a Capodistria e al marzo del 1944? Si tratta del risultato delle ricerche che la madre di Antonio, rimasta sola con la figlia minore Maria (il figlio più giovane, Cleofino, è infatti caduto come armiere della torpediniera “Ciclone” della Regia Marina nell’agosto 1942 venendo insignito della medaglia d’argento al VM),2 inizia appena le è possibile farlo, all’indomani della liberazione di Termoli (3 ottobre 1943), per sapere che fine avesse fatto il suo figlio maggiore. Nel corso delle sue ricerche la signora Concettina entra in corrispondenza con un certo Carlo Nobile di Capodistria. Il Nobile è una persona importante a Capodistria: possidente, è uno dei maggiorenti della città ed è stato l’ultimo sindaco — socialista — liberamente eletto di Capodistria prima del fascismo.3 Il 27 luglio 1945 il Nobile manda una cartolina alla vedova Ruffini, in cui scrive tra l’altro: »… Le ripeto che Suo figlio, il 23 marzo 1944, verso le ore 21 fu costretto a lasciare casa mia assieme a Renato Castiglione di Napoli e Arturo Russo di Taranto da una pattuglia di partigiani che li invitarono seco loro. In quel medesimo periodo i partigiani fecero partire anche parecchi giovani del luogo. D’accordo con i partigiani i tre promisero di scriverci a un indirizzo convenuto. Nulla più ricevemmo, né allora né poi. Da informazioni qui attinte sembra che i tre sono stati fatti passare in Friuli con i garibaldini italiani, ma nulla purtroppo abbiamo potuto sapere di positivo. Può anche essere che durante il tragitto siano stati fatti prigionieri dai tedeschi e in quel caso — come nell’altro che siano rimasti con i partigiani in luoghi remoti — le notizie, e loro fatti potrebbero giungere di giorno in giorno. Ciò appunto fervidamente auguro a Lei, Distinta Signora, e a noi tutti….«.4 Ecco la spiegazione dei due riferimenti geografico e cronologico nell’ultima annotazione dello stato di servizio.5 Purtroppo l’augurio del Nobile di poter avere in breve ulteriori notizie di Antonio Ruffini rimase un’augurio e queste furono anche le uniche notizie che Concettina e, dopo la sua morte, sua figlia Maria, riuscirono a raccogliere su Antonio fino ad alcuni anni fa.
Nel 2008, ad oltre 60 anni dalla sparizione di Antonio, qualcuno fece infatti presente a Maria Ruffini che esisteva un libro, “L’Albo d’Oro — La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale” di Luigi Papo,6 in cui veniva riportato anche il nome di suo fratello, del quale si scriveva: »Ruffini Antonio di Donato e di Concetta Mucci, nato 16–4- 1921 a Termoli (CB) S.Ten. 53° Rtg Fanteria; a Capodistria dopo l’8–9–1943; scomparso il 23–3–1944 deportato dagli slavi«. Sulla base di questi dati Maria venne convinta che suo fratello fosse stato ucciso dagli »slavi« e indotta a presentare domanda per ottenere per il fratello i riconoscimenti che, dopo l’approvazione della legge 30 marzo 2004 n° 92 istitutiva del »Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo«, viene concesso ogni 10 febbraio ai parenti dei c.d. »infoibati«. Bastava compilare un modulo con i dati personali della persona scomparsa, il proprio grado di parentela con essa, descrivere le circostanze della scomparsa ed eventualmente (ma non necessariamente) allegare testi e documenti a sostegno di quanto riportato. La domanda venne inoltrata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM), o, più precisamente, alla »Commissione incaricata dell’esame delle domande per la concessione di un riconoscimento ai congiunti delle vittime delle foibe«, istituita presso la PCM proprio al fine di vagliare le domande pervenute. Una Commissione di alto profilo istituzionale, presieduta dallo stesso Presidente del CM (o da un suo delegato), e composta, oltre che da due rappresentanti del Comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da due esperti designati rispettivamente dall’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste e dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, anche da un funzionario del Ministero dell’Interno e dai Capi degli Uffici storici degli Stati maggiori di Esercito, Marina, Aereonautica e dell’Arma dei carabinieri.7 L’autorevole Commissione vagliò la domanda di Maria Ruffini giudicandola meritevole di venire accolta ed il 10 febbraio del 2009, in occasione della Giornata del Ricordo, Maria si recò a Roma, dove fu tra coloro che ricevettero dalle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’insegna metallica ed il diploma alla memoria dei c.d. infoibati.
Nonostante tutto però a Termoli qualcuno non era del tutto convinto della correttezza di quanto accaduto. Quello stesso 10 febbraio 2009 Giovanni De Fanis scriveva infatti in un suo commento alla vicenda di Antonio Ruffini che “la stessa ipotesi di essere stato ammazzato dagli “slavocomunisti” e infoibato, allo stato delle informazioni e dei dati acquisiti, non può essere onestamente sostenuta”.8 E tuttavia la Commissione presso la PCM aveva assegnato i riconoscimenti, ed il Comune di Termoli si affrettò a intitolare la strada fino a quel momento dedicata a Cleofino Ruffini, anche al fratello Antonio.9
Venuto a conoscenza della vicenda cercai di approfondire la questione, ma senza grossi risultati. Finché Alessandra Kersevan non mi segnalò un saggio di Luigi Raimondi, pubblicato nel 1982 dalla rivista dell’Istituto friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine “Storia contemporanea in Friuli” e intitolato “L’eccidio di Rauna di Grgaro”.10
Il saggio tenta di ricostruire e fare chiarezza sull’eccidio di un gruppo di partigiani italiani disarmati commesso da una unità nazifascista (composta di tedeschi, ma forse anche da fascisti italiani e “domobranci” sloveni)11 a Raune di Grgaro (Grgarske Ravne), nelle montagne sovrastanti l’Isonzo a nord di Gorizia. Si trattava di un gruppo di ex militari italiani (il loro numero non è certo, si va dai 18 ai 23)12 in trasferimento dalla zona di Capodistria verso il Friuli per aggregarsi alle formazioni partigiane garibaldine. Lo spostamento avvenne a tappe con l’accompagnamento di guide slovene del posto. Dopo essere passato anche per il comando del battaglione partigiano italiano “Roma”13 nella Selva di Ternova (Trnovski gozd), il 30 marzo il gruppo era arrivato a Grgaro, dove venne ospitato e rifocillato presso una famiglia del posto. Il giorno seguente,14 verso le 7 della mattina, il gruppo, sempre accompagnato da una guida del posto, giunse a Rauna di Grgaro. Gli italiani vennero accolti nell’osteria del paese e per loro si inizia a preparare la colazione. Nel frattempo giunge però inopinatamente in paese, grazie anche alla giornata nebbiosa, una unità nazifascista. I militari italiani, avvisati dai paesani, cercano di fuggire dall’osteria, ma solo pochi15 seguono il percorso di fuga indicato dalle guide slovene e riescono a mettersi in salvo su una vicina montagna. Gli altri vennero tutti catturati. Uno solo di loro cercò di difendersi, seppure inerme, un tenente con la giacca della divisa con ancora visibili i segni dei gradi. I nazifascisti sono inferociti con lui: portano fuori dall’osteria uno dei tavoli e vi pongono sopra una sedia, legano una corda con un cappio al balcone, fanno salire il tenente italiano sulla sedia e lo impiccano. Non soddisfatti gli sparano anche addosso.16 Dopo aver minacciato e maltrattato la popolazione i nazifascisti incendiarono l’edificio in cui si trovava l’osteria e ripartirono in direzione di Anhovo (Salona d’Isonzo), portandosi dietro i garibaldini catturati e due ostaggi del luogo. Questi ultimi vennero rilasciati dopo alcuni kilometri di marcia, mentre i partigiani italiani vennero seviziati (tanto da renderli irriconoscibili) e uccisi lungo la strada: i loro corpi, disposti per ulteriore spregio a forma di stella, vennero ritrovati e sepolti in un campo vicino da un abitante di Deskle (Descla). Il corpo dell’ufficiale impiccato a Grgarske Ravne venne invece successivamente probabilmente inumato nel cimitero di Bate (Battaglia della Bainsizza).17 Nel 1979 sull’edificio polifunzionale costruito sul luogo in cui stava l’osteria bruciata dai nazifascisti venne posta una lapide bilingue, slovena e italiana, che ricorda che in quel luogo il 31 marzo 1944 furono fatti prigionieri dai nazifascisti 20 partigiani italiani, successivamente torturati e uccisi. Visto che la popolazione del luogo non aveva avuto il tempo di conoscerli non c’era nessun nome dei 20 uccisi.18
Il primo di tali nomi riuscì a ricostruirlo proprio il Raimondi nel suo saggio. In base alla testimonianza del comandante della Brigara partigiana “Roma”, Giovanni Paparazzo,19 Raimondi individuò tra gli assassinati dai nazisti il sottotenente Renato Castiglione Morelli. Ma Raimondi fece di più, accertando che i militari italiani erano partiti da Capodistria, dove il Castiglione Morelli era stato ospitato da un certo Nobili o Nobile, e riportando anche il cognome di un secondo militare, Ruffino o Ruffini.20
Le “coincidenze” erano un pò troppe e allora nella primavera del 2010 l’ANPI di Gorizia decise di scrivere al Comune di Termoli e al De Fanis comunicandogli quanto scoperto sulla vicenda Ruffini.
La lettera non ebbe a lungo alcun effetto. Il Comune di Termoli non si curò nemmeno di avvisare di quanto emerso la signora Maria Ruffini, che venne informata di sua iniziativa dal De Fanis. Ma De Fanis non si limitò a ciò: nel novembre del 2010 prese con se una foto del Ruffini e si recò sui luoghi della sua probabile morte. Qui incontrò tra gli altri anche quella che è probabilmente l’unica testimone ancora in vita degli avvenimenti di fine marzo del 1944 a Grgarske Ravne, Vera Bitežnik Bastjančič, all’epoca giovanissima appartenente alla famiglia proprietaria dell’osteria al cui balcone venne impiccato il primo militare italiano ucciso dai
nazisti. E Vera,quando De Fanis le mostrò una foto di Antonio Ruffini lo riconobbe immediatamente come il militare italiano impiccato al balcone dell’osteria della sua famiglia. Volle anche dare “ufficialità” al suo riconoscimento scrivendo quanto segue sul retro della fotografia:
“La sottoscritta Vera Bitežnik Bastjančič, nata il 28 Settembre 1929 a Grgarske Ravne, Comune di Nova Gorica, abitante a Grgar, n° 109, dichiaro di riconoscere su questa foto uno dei giovani che la mattina del 31 Marzo 1944 si rifugiarono nella nostra osteria e che fu impiccato dai soldati tedeschi al balcone di casa nostra. Vera Bitežnik, maritata Bastjančič. Grgar, 19 Novembre 2010”.
Ma nonostante ciò la battaglia di Maria Ruffini e Giovanni De Fanis per far riconoscere pubblicamente la verità sulla fine di Antonio Ruffini era appena agli inizi. Ci vollero altri due anni di insistenze e lotta, ma finalmente il 2 giugno del 2012, nel giorno della Festa della Repubblica, la Regione Molise ha consegnato a Maria Ruffini una medaglia d’oro “al S. Ten. Antonio Ruffini, impiccato, quale partigiano, dalle truppe naziste il 31 marzo 1944 a Grgarske Ravne (Slovenia)”. Il tutto è stato
poi completato nell’ottobre 2012,
quando una delegazione del Comune di Termoli si è recata a rendere omaggio ad Antonio Ruffini ed ai suoi compagni trucidati dai nazisti a Grgarske Ravne e al sacrario dei caduti nella lotta partigiana di
Trnovo sopra Nova Gorica.
A conclusione vorrei fare alcune considerazioni. Se su Antonio Ruffini (nonché Renato Castiglione Morelli e molto probabilmente anche Arturo Russo) si è finalmente, anche se faticosamente, riusciti a conoscere come morì, rimangono altri 7, 15 o addirittura 17 ex militari del Regio esercito che non hanno fatto ritorno a casa dopo la guerra e per i quali non si sa che fine abbiano fatto. Ma che “ricercatori” interessati possono tranquillamente addossare agli “slavocomunisti”, proprio come accaduto e come tuttora accade per Ruffini e per Castiglione Morelli, entrambi presenti come “vittime degli slavi” nell’”Albo d’Oro” di Papo ed in altri elenchi di “infoibati”. Il tutto poi sanzionato ufficialmente da altissime istituzioni dello stato come la Commissione per l’attribuzione della qualifica di “infoibato”. Lo Stato italiano ha quindi non solo consentito, ma anche legittimato ufficialmente, che coloro che in quanto collaboratori solerti dei nazisti sono corresponsabili dei loro crimini sfruttassero per i propri immondi scopi l’assassinio di persone uccise dai loro padroni e “camerati”, attribuendone la responsabilità a coloro che combattevano dalla stessa parte degli assassinati.
di Sandi Volk